Monti, un’Italia “più equa” deve premiare i più bravi

Monti, un’Italia “più equa” deve premiare i più bravi

Un simpatico commento all’articolo precedente mi ricorda che il buon Iddio, ammesso e non concesso abbia a cuore l’Italia, farebbe bene ad occuparsi di politica e non d’economia. Concordo. Non a caso avevo iniziato con un ironico “Io, se fossi Dio …” per sottolineare che i miei suggerimenti non erano particolarmente originali ma che, per pensare d’attuarli, dovevo fingere l’esistenza di un consenso politico che al momento appare tanto improbabile quanto necessario. Buona fortuna, quindi, a Mario Monti ed al paese: ne hanno entrambi molto bisogno dato il parlamento con cui si trovano ad aver a che fare. D’altro canto, siccome nè faccio nè credo farò mai il ministro posso prendermi il lusso di ragionare a voce alta attorno a ciò che la realtà dei fatti suggerisce essere necessario. Vedremo poi, lungo la metrica così definita, cosa la mediazione politica possa conseguire.

Mi son concentrato l’altro giorno sull’immediato – ristabilire la credibilità del paese sui mercati nazionali ed internazionali – e sul breve periodo. I provvedimenti che mi sembrano più urgenti – riduzione drastica dei costi dell’apparato centrale dello stato (sia esso elettivo o funzionariale), riforma organica delle pensioni, reintroduzione ICI ed abolizione del finto federalismo, riforma della contrattazione e dei meccanismi di assicurazione dalla disoccupazione involontaria, avviamento d’un processo d’effettiva privatizzazione delle aziende sotto controllo statale e di liberalizzazione del settore dei servizi – possono essere adottati in pochi mesi ma occorre essere consapevoli che, perché sortiscano l’effetto desiderato, essi richiedono periodi ben più lunghi di tempo. I problemi italiani sono quasi tutti strutturali, nessuno di essi ha la forma “se non tagliamo X entro tre mesi il Tesoro non riesce a pagare gli stipendi”; quindi l’accento non va posto tanto sull’urgenza dei risultati quanto su quella delle azioni. Chiare riforme strutturali adottate in tempi ragionevolmente brevi e poi mantenute ed attuate coerentemente per anni sono la cura di cui il paese ha bisogno. Questo fatto ha delle ovvie implicazioni politiche che, credo, i lettori sapranno derivare da soli e quindi tralascio, fatta salva la rituale invocazione all’aiuto divino.

Programmaticamente, sono anche io convinto (credo lo sia la stragrande maggioranza degli economisti che hanno studiato i problemi italiani con mente libera da pregiudizi) che l’obiettivo debba essere equità nella crescita, come ha sintetizzato Monti. Una crescita equa si può ottenere solo eliminando dozzine di medievali privilegi per creare incentivi a lavorare, innovare e competere. Vediamo dove siano le priorità.
L’Italia ha bisogno anzitutto d’una vera riforma fiscale che si coniughi con una nuova riforma federalista. Che si sia pensato di poter adottare la seconda separatamente dalla prima è prova ulteriore del dilettantismo di chi ha governato sino ad ora. Oltre all’ovvia semplificazione di norme e tributi, la riforma fiscale deve prefiggersi quattro obiettivi: (i) riduzione del carico fiscale di almeno cinque punti di PIL nell’arco di un decennio; (ii) trasferimento della pressione fiscale dai redditi da lavoro e d’impresa al consumo ed al patrimonio; (iii) attribuzione del potere di tassazione sulla base di criteri federalisti: sui cespiti immobili o scarsamente mobili a regioni e comuni, su quelli mobili alla fiscalità nazionale; (iv) equità distributiva come risultato d’una tassazione non punitiva che legittimi la persecuzione penale dell’evasione fiscale. Facile? No, ma l’esperienza di svariati paesi del Nord Europa (della Svezia, anzitutto, che in due decenni ha ridotto di più di tre volte di quanto io auspichi pressione fiscale e spesa pubblica e continua a farlo) insegna che con competenza tecnica e volontà politica questi obiettivi sono raggiungibili ed i loro effetti benefici.

Alla riduzione della pressione fiscale deve accompagnarsi una riduzione sostanziale della spesa, in percentuale del reddito, senza la quale ogni ipotesi di controllo del debito risulterebbe vana. La riforma pensionistica contribuirebbe certamente a questo obiettivo, come lo farebbe una riparametrizzazione del trattamento economico dei funzionari ministeriali, ma nel lungo periodo questo non basta. Basta menzionare il sistema sanitario nazionale per intendere perché. Il fatto è che il “deficit” che l’amministrazione pubblica carica sul resto del paese non è limitato ai suoi costi monetari ma anche alla sua sempre più paradossale inefficienza. L’Italia non ha alcuna speranza d’attrarre investimenti e posti di lavoro nel terziario avanzato se non rivoluziona il suo sistema pubblico ed i servizi che esso (non) offre. Un editoriale non è luogo per affrontare un tema di tale complessità ma occorre rendersi conto che l’obiettivo non è raggiungibile senza vero federalismo (per quanto concerne quelli che gli economisti definiscono come “beni pubblici locali”), senza riscrivere l’intero sistema del dirittto amministrativo e senza cambiare la natura giuridica del contratto di pubblico impiego, quindi dei criteri attraverso cui promozioni ed incentivi vengono assegnati all’interno del settore pubblico.

Gli altri due terreni cruciali di riforma sono la scuola e la promozione/difesa della concorrenza nel mercato interno. La scuola italiana va rivoltata come un calzino sulla base di due criteri. Anzitutto, che la meritocrazia fa bene e va applicata a tutti, professori, studenti, dirigenti: o le scuole, i licei e le università sono messi in condizioni di competere e la meritocrazia è la risultante di tale competizione o non c’è maniera che il sistema premi i migliori e generi gli incentivi adeguati. In secondo luogo, che l’istruzione di qualità è sia costosa che non banale da ottenere: chi la vuole deve sia guadagnarsela con il merito che contribuire al suo costo in termini commensurati alla sua capacità di pagare. Per quanto riguarda la concorrenza nel mercato interno sono necessarie riforme drastiche per introdurla in alcuni settori strategici – trasporto ferroviario ed aereo, servizi di comunicazione digitale, servizi bancari e finanziari – per poi promuoverla e difenderla. Per fare queste ultime due cose è necessaria un’agenzia veramente indipendente e non (con tutto il mio rispetto per i suoi tecnici e funzionari) il carrozzone a doppio controllo politico-lobbistico che abbiamo oggi. E qui, mi rendo conto, cominciamo ad entrare in terreni in cui, oggi come oggi, forse nemmeno l’aiuto divino potrebbe bastare. Ma queste sono le cose di cui l’Italia ha bisogno se vuole crescita con equità.

Caro Monti, hic rhodus hic salta. 

*Department of Economics – Washington University in Saint Louis

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