La cattura di Saif al Islam Gheddafi in Libia chiude forse definitivamente ogni velleità dei gheddafiani di condurre una campagna di destabilizzazione del paese e del nuovo governo libico che proprio in queste ore, dopo settimane di lunghe contrattazioni, si è formato su iniziativa del primo ministro Abdel Rahim el-Keeb. La vicenda e la sorte personale di Saif si intreccia con quella delle nomine del nuovo governo.
“Coincidenza” vuole che il leader militare della brigata di Zlintan a cui si deve la cattura di Saif, e che fisicamente lo detiene, Osama al-Juwali, sia diventato ministro della Difesa. In un paese dove ogni fazione o ogni città (come quella di Misurata che a buon ragione rivendica un ruolo chiave nel successo della “rivoluzione” in Tripolitania) reclama una partecipazione alla gestione del potere nella nuova autorità nazionale, aver catturato Saif Gheddafi diviene una carta fondamentale da giocare nelle trattative.
In queste ore è a Tripoli anche il procuratore capo della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, che sembra aver ceduto (non poteva essere altrimenti) alla volontà delle nuove autorità di non estradarlo «a patto che ci sia un processo giudiziario che non lo protegga dalla giustizia internazionale». Le autorità libiche si muovono con molta cautela sul caso e le dichiarazioni sul futuro processo sono poche. Saif manifesta tutta l’ambivalenza occidentale: sino al febbraio scorso era il campione del rinnovamento libico, la faccia moderna di un regime che evolveva, dopo è divenuto il corresponsabile, col padre, dei più efferati crimini internazionali.
Il processo a Saif potrebbe servire per compattare il paese contro un capro espiatorio credibile, l’emblema del regime dispotico e oppressivo. Ma la gestione del processo ha diverse complicanze. Ci si potrà accanire contro chi, fino all’inizio delle ostilità, ha sempre sostenuto l’ala riformista del regime, compresi i vari Mustafà Abdel Jalil che allora erano portati in palmo di mano dal figlio “illuminato” di Gheddafi? Potrà essere dato il diritto di replica ad una persona capace di svelare i legami nazionali e internazionali del recente passato rischiando di far perdere la credibilità e la legittimità che le nuove autorità si stanno faticosamente costruendo?
I passi del governo libico terranno certamente presenti questi punti; la tentazione di un processo piuttosto sommario e sbrigativo potrebbe prevalere. Ciò però potrebbe esporre il governo alle critiche esterne. Jalil, il nuovo premier el-Keeb e i vari tecnocrati si stanno quindi muovendo su un terreno assai delicato. L’imposizione della Sharia come principale fonte di legge nel paese è certamente un tributo pagato alle milizie islamiche a cui si deve riconoscenza per aver combattuto per tutti questi mesi ed è allo stesso tempo un segnale (di debolezza) lanciato agli islamisti con lo scopo di mantenere il potere: “crediamo negli stessi valori, lavoriamo insieme”.
La gestione del caso Saif sarà certamente il primo banco di prova dell’applicazione della Sharia e della collaborazione tra queste due anime del paese. Non è un caso che la formazione del nuovo governo sia avvenuta dopo incontri tra gli esponenti del Cnt e quei gruppi che si rifanno ad un ruolo politico dell’Islam nel futuro del paese, come quello di Ali al-Sallabi, leader islamico che potrebbe diventare una delle figure chiave della nuova Libia. Il tentativo di Jalil di “cooptare” al potere gli islamisti sembra aver avuto successo, anche se nessun esponente di spicco è stato nominato all’interno del governo. La nuova identità libica potrebbe essere costruita solamente attorno al ruolo dell’Islam, uno dei pochi collanti del paese.
Ma qui bisogna ritornare allo scenario internazionale. Sallabi ha goduto fin dall’inizio della crisi dell’appoggio del Qatar (dove risiedeva), uno dei grandi finanziatori dell’insurrezione che ha portato al rovesciamento di Muammar Gheddafi. Il tentativo del Qatar non appare finalizzato a far saltare il banco, appare invece diretto a rafforzare l’ala islamista perché ciò rafforzerebbe di conseguenza il proprio ruolo nel paese e nella regione, quello di trait d’union tra Islam e Occidente, uno spazio che grazie ad Al Jazeera il Qatar si riuscito a costruire negli ultimi 15 anni.
Due fattori potrebbero favorire la stabilità del paese. Il primo: sul piano interno per beneficiare della redistribuzione della rendita petrolifera di cui la Libia disporrebbe grandemente bisogna che ci sia stabilità, che il paese sia governabile. È quindi necessario che le fazioni si mettano d’accordo e che la lotta sia semmai politica, non militare. È forse un discorso, così sintetizzato, troppo razionale che non tiene conto di molteplici fattori, ma nessuno appare così forte da poter pensare di compiere una scalata al potere (sanguinosa) da solo. Il secondo: se le cause della crisi libica sono state per buona parte indotte dall’esterno con le potenze europee, e la complicità di quelle arabe, che hanno imposto il regime change, ora gli interessi si sono probabilmente invertiti: pochissimi trarranno benefici da una Libia instabile, molti vorranno avere un referente con cui tornare a discutere di petrolio e gas e con il quale riavviare pienamente le collaborazioni energetiche.
In questo caso sulla regolarità al processo a Saif si potrebbe chiudere un occhio. Moreno Ocampo pare averlo capito: le sue dichiarazioni sono state tutte incentrare sul rischio dell’impunità (?) e non su quello dell’irregolarità del processo. A nessuno piacerebbe guardare al passato e sentirsi ripetere troppo di essere andati a braccetto con il diavolo. O con suo figlio.
*Ricercatore Ispi, autore di “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi – La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974)”, 2009, Baldini Castoldi Dalai Editore