C’è un feticismo che torna ogni volta che si parla di qualche festival. E talvolta stride col contesto. È di tessuto e di colore vivace, rosso per l’esattezza. Richiama un simbolismo pop di dive, lustrini, autografi e portaborse pitonati, i leoni di Venezia, le palme di Cannes e la veltroniana festa di Roma. Si tratta del red carpet, il tappeto delle star, diventato nelle ultime settimane l’oggetto del dibattito cultural-politico torinese, tradotto per l’occasione in Penelope Cruz: farne o meno la madrina (anzi la “seconda madrina”, visto che quella ufficiale è Laura Morante) del Torino film festival? Da una parte l’assessore regionale alla Cultura, il giovane Michele Coppola, Pdl, sfidante di Fassino alle comunali, e il neo presidente del Museo del cinema Ugo Nespolo, fautori di una linea più glamour, “a tutti i costi Penelope”, dall’altra l’assessore comunale Maurizio Braccialarghe (esterno Pd, già direttore del centro produzione Rai di via Verdi) e il direttore del festival, il regista Gianni Amelio, propensi a non snaturare l’anima del festival, “qualità low cost”, perché anche il Tff – in tempi di crisi – fa i conti con i tagli (e, dicono, “i divi costano”): un budget ridotto a 2 milioni di euro per la 29esima edizione, 300 mila in meno rispetto al 2010, un milione in meno rispetto al 2007 (10 milioni in meno dell’attuale edizione del Festival di cinema di Roma).
Strano, ma forse non troppo, che la contesa sul red carpet capiti nella sobria capitale sabauda, strano che capiti al Tff, il principale festival italiano per ricerca e qualità. In realtà, del tappeto rosso se ne parla dai tempi della destituzione del professor Gianni Rondolino e dell’arrivo, nel 2007, di Nanni Moretti alla guida della kermesse: esplose l’attenzione dei media, le paillettes non arrivarono; bastava lui, il divo Nanni. E, così a ogni nuova edizione, qualcuno ci riprova a forzare la natura antidivistica del Tff. Quest’anno, nonostante i tagli, le pressioni si sono fatte insistenti. Nonostante Amelio avesse detto «Qui si viene per i film. Non ci interessa il red carpet né “il modello romano” col suo budget faraonico», la caccia al vip è diventato il leitmotiv delle ultime settimane. Il giovane Coppola non ha mollato il suo endorsement per l’attrice spagnola, musa di Almodóvar, impegnata a Torino nelle riprese di Venuto al mondo di Sergio Castellitto. Alla fine, questa sera, Penelope Cruz sarà ospite (a costo zero, a dispetto delle indiscrezioni su cachet milionari) dell’inaugurazione del festival al Teatro Regio. E ci saranno pure Valeria Golino, Charlotte Rampling, impegnata a Torino sul set di Baby Blues, e il neo-ministro all’istruzione Francesco Profumo. A chiudere indirettamente una polemica, a tratti surreale, ci pensa il regista finlandese Aki Kaurismaki (in programma con Miracolo a Le Havre), premiato con il Gran Torino: «Preferisco i lupi agli uomini pallidi di Wall Street, un horror con loro risulterebbe noioso».
Budget ristretto, ma cartellone ricco per la 29esima edizione del Torino Film Festival, nato piccolo e metropolitano nei primi anni ’80 e cresciuto a dismisura negli ultimi 15 anni. Ancora una volta avrà lo sguardo rivolto al “cinema giovane” e innovativo, alla contemporaneità e a mondi lontani, a grandi autori e cinema di genere, alle sperimentazioni linguistiche e alle storie di confine: 217 titoli, 32 anteprime mondiali, 20 anteprime internazionali, 10 anteprime europee, 70 anteprime italiane. Dodici sezioni e un concorso internazionale principale “Torino 29”, riservato agli autori alla prima, seconda o terza opera. Un festival che più che Venezia e Roma sfida, per dirla con Amelio, “i suoi competitor naturali: Berlino, Sundance e Rotterdam”. Si parte questa sera con il dramma sportivo L’arte di vincere – Moneyball, il film di Bennett Miller (Truman Capote: a sangue freddo, 2005) che racconta la storia vera del general manager degli Oakland Athletics, Billy Beane (interpretato da Brad Pitt), che nel 2002 portò al successo la sua squadra nonostante i problemi economici. Doppia chiusura, il 3 dicembre, con Albert Nobbs del colombiano Rodrigo Garcia con Glenn Close (anche cosceneggiatrice e produttrice) nei panni di una donna dell’Ottocento, costretta a fingersi uomo per poter lavorare come maggiordomo, e Twixt, il film che quasi vent’anni dopo Dracula, segna il ritorno di Francis Ford Coppola al gotico. In mezzo, 9 giorni di lunghi, medi, cortometraggi, sparsi su undici schermi in centro città, dibattiti, incontri e conferenze, una retrospettiva dedicata a Robert Altman (morto nel 2006) autore di capolavori come M.A.S.H., Nashville e America Oggi (tratto dai racconti di Raymond Carver), Rapporto confindenziale dedicato all’esplosivo giapponese Sion Sono e le anteprime di The Descendants di Alexander Payne con George Clooney e Midnight in Paris di Woody Allen. Documentari d’autore, come George Harrison: Living in the Material World di Martin Scorsese, che – usando materiali inediti, dall’infanzia ai Beatles fino all’altalenante carriera solista – racconta la vita del chitarrista del quartetto di Liverpool ispirandosi a ciò che disse di lui John Lennon: «George di per sé non è un mistero, ma il mistero dentro George è immenso. Scoprirlo poco a poco è dannatamente interessante». Sabato, ecco l’attessimo film documentario di Werner Herzog sulla pena di morte, Into The Abyss, dove, pochi giorni prima dell’esecuzione, l’autore tedesco incontra Michael Perry, condannato a morto per omicidio. Un racconto di morte, ma anche, assolutamente, di vita. Di un passato e presente pesante, di vite afflitte da droga e Aids parla il film vietnamita With or without me girato nel nord-est del Vietnam ai confini con il Laos, regione attraversata dal traffico di eroina verso la Cina.
In Festa mobile, la sezione più varia, Marco Bechis ne Il sorriso del capo usa piccoli, ignoti film di propaganda fascista per riflettere sul mito dell’uomo forte e sul fascino che questo esercita sugli italiani, mentre nel mockumentary L’era legale Enrico Caria ricostruisce con interviste a personaggi come Arbore, De Cataldo e Isabella Rossellini la carriera di un futuribile sindaco che, nel 2020, ha trasformato Napoli in un paradiso di pulizia (e sarà accompagnato a Torino dal sindaco reale, Luigi De Magistris). Tra gli altri italiani, da segnalare, Daniele Segre con Sic Fiat Italia, Sette opere di misericordia dei gemelli De Serio per la prima volta alle prese con lungometraggio di finzione. Nel concorso Torino 29, ci sono invece Il più grande di tutti di Carlo Virzì, fratello del più noto Paolo, e Ulidi piccola mia dell’esordiente Mateo Zoni, che dovranno vedersela per la vittoria finale con altri 14 titoli. Tra i più accreditati Win Win di Thomas McCarthy e 50/50 di Jonathan Levine.
Da seguire, Italiana.Doc, uno sguardo diverso degli autori italiani sulla contemporaneità, che negli anni ha rivelato registi come Daniele Gaglianone, Saverio Costanzo, Alina Marazzi. Ha aperto e sperimentato nuove strade e nuove forme di cinema documentario, influenzando il cinema cosiddetto “normale”. Storie che vanno dalla Malpensa ai profughi somali, dai pescatori cubani a Banishanta (isola bordello nel sud del Bangladesh), da Freak Antoni al famigerato nord-est fino a Un mito antropologico televisivo, che riflette sull’impatto della documentazione televisivo-giornalistica nella costruzione di una lettura mitografica della storia siciliana contemporanea, in particolare gli anni 1991-1994. Fuori dalla cartella stampa, ma presente nel programma, un film documentario inedito, (S)comparse di Antonio Tibaldi, che potrebbe far molto discutere e incrinare la corsa all’Oscar di Terraferma il film di Emanuele Crialese. Quello di Tibaldi è un backstage scomodo: la troupe di Crialese si è stabilita a Linosa per cinque mesi, dando impiego a molti dei suoi abitanti ma interrompendone la tranquilla quotidianità. «La perplessità degli isolani di fronte all’invadenza della macchina del cinema non è stata minore di quella delle comparse africane, chiamate a imitare tragedie da loro realmente vissute».
Insomma, tutto è pronto per il ciak d’inizio. Che potrebbe essere più rumoroso del solito. Fuori dal Teatro Regio sono previste diverse contestazioni. In presidio, questa sera, ci saranno i lavoratori della cooperativa Rear, diversi impiegati al Museo del cinema (all’accoglienza, biglietteria e sorveglianza), vogliono «rompere il silenzio su paghe da fame (passate da da 5,40 euro lordi all’ora a 4,86), lettere di licenziamento e attacco ai diritti sindacali». Puntano il dito contro il presidente della loro società, Mauro Laus, consigliere regionale Pd. Poi, ci saranno gli studenti universitari pronti a contestare il ritorno in città del ministro Profumo, già rettore del Politecnico. Vedremo se, alla fine, la spunterà invece il red carpet.