A Los Angeles in scena Orango, l’opera scomparsa di Šostakovič

A Los Angeles in scena Orango, l’opera scomparsa di Šostakovič

Se ci si è persi di vista, un motivo ci sarà. Nella musica come nella vita le riesumazioni di successo sono una minoranza, ancorché corposa. Anche partendo dal più cinico scetticismo però il ritrovamento di quaranta minuti di un’opera del tutto sconosciuta scritta da Dimitri Šostakovič all’inizio degli anni 30 ha molti motivi per suscitare curiosità, a partire dall’improbabile titolo: «Orango».

Dopo il parziale insuccesso della sua prima opera «Il naso» da Gogol’ (il Met ne ha recentemente prodotto un’edizione di lusso firmata da William Kentridge) per Šostakovič iniziò un periodo di produzione vulcanica e disordinata: per il 1932, in cui si celebravano i 15 anni della Rivoluzione, il Bol’šoj gli commissionò la musica per «La chiave», su libretto del poeta satirico Demyan Bedny. Libretto che però non fu mai consegnato: il Bol’soj commissionò in tutta fretta un altro testo all’avventuriero e scrittore di fantascienza Alexej Tolstoj, in collaborazione con Alexander Starchakov. L’argomento della nuova opera doveva essere «la crescita dell’umanità durante la rivoluzione e la costruzione del socialismo».

L’esito fu «Orango»: la storia di un cinico magnate della stampa borghese che è in realtà il risultato degli esperimenti di uno scenziato che ha inseminato una scimmia. Il plot attingeva largamente all’attualità: nel 1927 lo scienziato Il’ja Ivanov aveva lasciato la Guinea in seguito ai suoi esperimenti di fecondazione di femmine di scimpanzé con seme umano, ed aveva proseguito le sue ricerche in Russia cercando di fecondare donne sovietiche con seme di scimpanzé.

Šostakovič ricevette da Tolstoj il libretto del prologo, che si svolge nell’erigendo palazzo dei Soviet (all’inizio degli ani ’30 tutta la Russia ne parlava: il visionario progetto dell’architetto Boris Iofan prevedeva un grattacielo alto un chilometro) e completò una bozza al pianoforte. Ma fu tutto: Tolstoj non scrisse altro e il Bol’soj ritirò la commissione. Due anni dopo Šostakovič, che aveva allora solo 28 anni, compose il suo capolavoro teatrale: «Una Lady Macbeth del distretto di Mzensk». Nell’opera confluivano cronaca e letteratura, satira e dramma, e anche molto sesso: fu un successo dirompente con centinaia di repliche e fino a tre diversi allestimenti in contemporanea nella sola città di Mosca. La reazione del regime non fu delle più rapide, ma efficace sì: nel 1936 sulla Pravda apparve la celebre stroncatura «Caos invece di musica», non firmata ma attribuibile allo stesso Stalin, in cui puntando il dito sulla «Lady» si imponeva un giro di vite all’intera produzione musicale russa. Šostakovič temette per la sua vita, si guardò bene dal cimentarsi ancora con il teatro e ficcò in fondo ai cassetti più nascosti gli abbozzi che aveva per casa. By the way, anche il progetto per il grattacielo dei Soviet era stato archiviato nel frattempo.

Šostakovič morì nel 1975. Nel 2004 la vedova, Irina Antonovna, chiese alla studiosa Olga Digonskaya di esaminare il contenuto di uno scatolone conservato al Museo Glinka di Mosca. In mezzo al migliaio di fogli pieni di appunti di ogni genere ecco sette pagine fitte di musica, che diventeranno quasi 50 una volta trascritte: il prologo di «Orango», di cui nessuno aveva più saputo nulla. Solo una bozza per pianoforte, ma in una scrittura leggibile, con poche abbeviazioni. L’ouverture è ripresa da un precedente, sfortunato lavoro, «Il grande fulmine»; il resto, mezz’ora di musica, è nuovo.

Il compito di ricreare l’orchestrazione, di cui non è traccia nel manoscritto, venne affidato a Gerard McBurney, compositore britannico con studi a Mosca e oggi di stanza a Chicago che aveva già ricostruito altre pagine d’autore. McBurney resta sconcertato dal materiale: il prologo si apre nel palazzo dei Soviet con un coro imponente, musorgskiano, che celebra i martiri della rivoluzione. In un angolo quattro stranieri si annoiano a morte: loro sono venuti per vedere l’Orango. Però sono disposti a farsi raccontare i miracoli della Rivoluzione. «Quello che segue, spiega McBurney in un’intervista alla rivista americana Opera (da cui ho attinto ampiamente, ndr), è un ridicolo canto da imbonitori, un po’ nello stile di Gilbert & Sullivan, anche un po’ Offenbach: una lista assurda dei risultati dell’Unione Sovietica».

Gli stranieri non sembrano impressionati, e allora entra in scena «la più grande ballerina del mondo» impegnata in una «danza della pace», in realtà un’esibizione sexy su temi da cabaret berlinese che scatena un delirio erotico-pacifista. Ma le insistenze non si placano finché non arriva l’Orango che, dopo aver fatto carriera in Occidente, è stato portato nell’Urss. Siede a tavola da gentiluomo, suona al pianoforte una celebre filastrocca russa, ma alla vista di una donna del pubblico perde il controllo e semina il panico finché non lo portano via. Il coro intona un epilogo sghignazzante in attesa di sentirsi raccontare per filo e per segno la storia dell’Orango nei tre atti che seguiranno.

Il fatto che Šostakovič potesse pensare di andare in scena con una cosa del genere al Bol’soj nel ’32 è sorprendente, mentre non suscita nessuno stupore il fatto che la partitura sia rimasta ben nascosta per gli 80 anni successivi. A presentarla al pubblico hanno pensato lo scorso 2 dicembre Esa-Pekka Salonen, di ritorno sul podio della Los Angeles Philharmonic che ha diretto dal 1992 al 2009, e il regista Peter Sellars, in una versione semiscenica salutata da grande successo dal pubblico della Walt Disney Concert Hall.

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Salonen, che quest’anno è impegnato anche in un complesso progetto dedicato a Bartók con la Philharmonia Orchestra, vede in «Orango» la testimonianza di una fase di eclettismo onnivoro ed entusiasta, traboccante di influenze occidentali oltre che di riferimenti alla tradizione musicale russa, colta e popolare. Šostakovič era appena stato per la prima volta a Berlino, e la Berlino di Weimar doveva essere piena di stimoli per un giovane sovietico. «Orango» è anche un indizio di quella che avrebbe potuto essere la carriera operistica di Šostakovič se non ci fossero stati i diktat del Cremlino. «Più tempo passo sulla partitura – ha spiegato Salonen al Los Angeles Times –, più studio i materiali e considero quello che accadeva intorno a lui e più mi convinco che credeva ancora nella causa. Si rendeva conto che molte delle opere che gli commissionavano erano di infima qualità artistica e servivano solo per la propaganda, ma alla fine credo che pensasse che quello che stava facendo fosse creare un’arte nuova per uomini nuovi in una nuova società. Leggere la partitura è un’esperienza triste, perché non restavano molti anni alla sua illusione di libertà».

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