Ha ragione il settimanale “Time”. “The Protester” è la “persona dell’anno”. I giovani scesi in piazza sono l’icona più importante del 2011, e non solo nel mondo islamico, dove versano il loro sangue per chiedere più libertà, ma anche nel mondo occidentale dove esprimono un disagio generazionale crescente, destinato forse a segnare l’intero decennio che abbiamo davanti.
Ci sono alcuni elementi paradossali in quello che è avvenuto nel 2011 nelle piazze d’Occidente. “Occupy Wall Street” non è nato come un movimento spontaneo. Al contrario, è stato lanciato da una rivista anticapitalista canadese, “Adbusters”, che da vent’anni si scaglia contro la cultura del consumismo e il potere della pubblicità. Adbusters, di fronte al moltiplicarsi dei segni di crisi tra i giovani americani, ha pubblicato una pagina (dal sapore pubblicitario) che diceva “What is our one demand? Occupy Wall Street, 17 September. Bring tent”. E i giovani hanno obbedito al messaggio. Hanno portato le tende, hanno riempito il piazzale davanti al palazzo della Borsa, hanno lanciato, con la forza evocativa di quel gesto simbolico, una campagna che è dilagata in ottocento città di tutto il mondo, si è affiancata al movimento spagnolo degli Indignados, ha contagiato i giovani che chiedono “istruzione per tutti” nell’iperliberista Cile, si è imposta tra gli indios e gli ecologisti brasiliani.
Ancora il movimento non si è esaurito, e non c’è da stupirsi. I giovani di Occupy Wall Street denunciano la rottura del patto sociale che ha cementato le società civili e l’economie del mondo occidentale dal dopoguerra a oggi. Se hanno ragione, allora quella protesta è destinata a durare e a diventare il simbolo della nuova lotta politica nel decennio appena cominciato. Il giornale online Politico.com segnala che dopo la nascita di “Occupy Wall Street”, consultando gli archivi di Lexis-Nexis si trovano circa 500 citazioni della parola ineguaglianza ogni settimana, mentre prima erano solo 90. Può darsi che sia un fuoco di paglia mediatico ma è difficile crederlo.
Le cause della crisi dell’Occidente non sono passeggere, ma strutturali: lo sviluppo dei paesi emergenti sottrae posti di lavoro e capitali ai paesi ricchi, mentre l’innovazione tecnologica divora l’occupazione con un ritmo instancabile e crescente. Ed è probabile che il bello debba ancora arrivare. Questi due fenomeni associati hanno prodotto l’effetto di un cocktail di farmaci depressivi sul mondo occidentale: nell’ultimo decennio ovunque sono cresciute l’ineguaglianza sociale e la disoccupazione tra i giovani.
C’è qualcosa di eversivo in questo movimento. Non i suoi modi di organizzazione, ma le motivazioni che lo spingono ad agire. Per la prima volta da molto tempo c’è qualcosa, nella crisi occidentale, che non sembra poter essere risanabile con manovre economico-finanziarie o con strategie politico-militari. Gli Stati Uniti cercano di arginare l’espansione economica della Cina inviando le proprie portaerei in Australia ma non riusciranno a invertire fenomeni che hanno il segno di un cambio d’epoca. I posti di lavoro esportabili nei paesi poveri e quelli distrutti dalla tecnologia continuano a crescere.
“Time” effettua un parallelo spericolato e paragona “Occupy Wall Street” al “Montgomery Bus Boycott”, il movimento che dilagò negli Stati Uniti nel 1955 quando Rosa Parks (una donna di colore) fu arrestata per essersi rifiutata di cedere il posto a un bianco. Ci vollero dieci anni (e Martin Luther King) prima che fosse votata la legge sui diritti civili. Quanto ci vorrà per invertire la tendenza verso un’ineguaglianza crescente che si è ormai imposta nelle nostre società? Il 1911 si chiude con questo interrogativo.
Cambia continente per continuare: