In Italia le norme di riferimento per i cosiddetti «stage o tirocini formativi e di orientamento» – come li chiama la legge – sono l’articolo 18 della legge 196/1997 e il decreto ministeriale attuativo 142/1998. Il decreto pone alcuni limiti (spesso disattesi nella realtà) al numero di stagisti che un’azienda (pubblica o privata che sia) può prendere in contemporanea; obbliga i soggetti promotori dello stage (università, centri di formazione, ecc.) a pagare per lo/a stagista l’assicurazione Inail e quella di responsabilità civile verso terzi; ma non impone all’azienda di pagare nessuno stipendio né rimborso spese: il decreto dice infatti esplicitamente che il rapporto tra l’azienda e lo stagista, non è «di lavoro subordinato», e questo vuol dire che, se l’azienda decide di dare un contributo economico, non si dovrà mai parlare di «stipendio» né di «retribuzione», ma di «rimborso spese» o al massimo di «premio» o «borsa di studio».
Come docente universitaria, faccio parte anche della commissione tirocini del corso di laurea in Scienze della Comunicazione a Bologna. In questa veste faccio da anni una battaglia quotidiana in aula, via mail, sul mio blog Dis.amb.iguando, negli incontri faccia a faccia con gli studenti, per informarli del fatto che il rimborso spese, anche se non è dovuto per legge, è qualcosa che dovrebbero almeno chiedere. Per queste ragioni principali:
- Se il/la giovane lo chiede nel modo giusto, mostrando cioè di essere consapevole di ciò che la legge prevede e non prevede, dei propri diritti e doveri, di ciò che può offrire all’azienda pur avendo – ovviamente – anche molto da imparare, la richiesta contribuisce a dare di lui/lei un’immagine positiva, matura, forte. E questo aumenta il suo potere contrattuale sia durante il colloquio, sia dopo.
- Se il giovane sta ben attento al modo in cui reagisce la persona dell’azienda con cui fa il colloquio, può capire molte cose sulla serietà delle intenzioni di «formazione e orientamento» da parte dell’azienda e, anche se la risposta sarà negativa, avrà diversi elementi in più per valutare l’opportunità o meno di svolgere quel tirocinio.
- Se l’azienda risponde positivamente, dimostrando di voler investire anche un minimo mensile per quel tirocinio, sarà allora meno probabile che poi abbandoni il tirocinante a se stesso o gli affidi mansioni poco «formative e orientanti» come fare fotocopie o rispondere al telefono.
- Last but not least: la legge italiana, a differenza di altri Paesi europei, come la Francia, non obbliga le aziende a dare agli stagisti nessun corrispettivo in denaro; ma se fra i giovani si diffonde la consapevolezza del fatto che non solo possono chiederlo ma in molti casi ottenerlo, e se i ragazzi cominciano a rifiutare stage completamente gratuiti, be’, forse le aziende un po’ alla volta saranno costrette ad adeguarsi.
Come minimo per questi motivi, insomma, batto e ribatto sullo stesso chiodo quasi tutti i giorni da almeno cinque anni. Altrettanto fanno, sempre da diversi anni, la testata giornalistica online La Repubblica degli Stagisti, il gruppo Facebook Manifesto dello stagista e, a livello europeo, il Forum Europeo della Gioventù (European Youth Forum) e altre organizzazioni come Génération Précaire in Francia and Interns Anonymous nel Regno Unito.
Eppure, ancora oggi, quando il giovane di turno mi scrive o viene a trovarmi in studio per chiedere la mia autorizzazione, in quanto tutor docente, a svolgere un certo tirocinio, alla fatidica domanda: «Hai chiesto e ottenuto almeno un gettone di rimborso spese?», le risposte che ricevo non danno ancora prova di quella consapevolezza diffusa che mi aspetterei. Al contrario, i giovani mostrano spesso un certo disorientamento complessivo, quando non addirittura passività e rassegnazione, perché – come spesso mi sono sentita dire – «in certi ambienti l’ultima cosa che ti senti di fare (purtroppo) è chiedere qualcosa», «perché significherebbe, nel 90% dei casi, sentirsi dire “le faremo sapere” lasciando il posto allo stagista successivo», o semplicemente «perché i giovani sono coscienti della loro impotenza».
Qui di sotto riporto un piccolo campionario delle risposte che ho ricevuto via mail dopo aver fatto la domanda: «Hai chiesto è ottenuto un gettone di rimborso spese?» a chi mi ha chiesto l’autorizzazione a svolgere un tirocinio curricolare, vale a dire un tirocinio che è previsto nel piano di studi del corso di laurea triennale in Scienze della Comunicazione, per avere un primo contatto con il mondo del lavoro. È una possibilità, attenzione, non un obbligo: al posto del tirocinio, infatti, i giovani possono scegliere di frequentare uno o due laboratori formativi, ottenendo lo stesso numero di crediti (12) che si ottengono con un tirocinio di 300 ore.
I nomi che seguono sono inventati, ma le risposte sono vere, nel senso che provengono da mail che davvero mi hanno scritto studenti fra i 20 e 22 anni. Ho stralciato le mail più rappresentative di tendenze generali che ho individuato in centinaia di scambi. Fra parentesi quadre ho poi inserito alcuni commenti, nei quali prendo un po’ in giro – in modo del tutto benevolo – l’ingenuità e il disorientamento che i ragazzi manifestano. I giovani che scrivono e chiedono aiuto appaiono confusi e a volte infantili. E spesso si crogiolano nel torpore familistico. Ma di qui a dire che «è tutta colpa loro» o che «non ci sono più i giovani di una volta» (come le stagioni), ne passa: la società e il mondo del lavoro in cui questi ragazzi si accingono a entrare sono stati costruiti dai loro padri e nonni, non certo da loro. E se i ragazzi sono disorientati – quando lo sono – è anche imputabile al fatto che troppo spesso sono costretti a passare, di colpo, da eccessi di accudimento familiare a eccessi di indifferenza, se non addirittura cinismo, al di fuori della famiglia.
Anna: «Per il rimborso spese non ho osato chiederglielo [non ha osato!] perché lo studio è a cinque minuti da dove abito [tutta casa, tirocinio e chiesa] per cui non ne vale neanche la pena dato che lo raggiungo in modo pressoché gratuito.»
Paolo: «Il titolare della ditta al momento non è intenzionato a corrispondermi alcun rimborso. È una persona tanto buona quanto lunatica e quindi non escludo che alla fine dello stage mi possa retribuire qualche indennità. Anche in passato ho collaborato con lui per il progetto di un dépliant, andato a buon fine, e anche se non era prevista alcuna retribuzione, successivamente nei vari contatti la ditta ha fatto riferimento a un premio in denaro, ma ciò sinora non si è purtroppo verificato» [insomma, nonostante l’esperienza negativa, il ragazzo insiste].
Luca: «Non abbiamo parlato di rimborso spese, anche perché l’azienda si è convenzionata per mia richiesta, e non volevo avanzare troppe pretese anche se “sacrosante” [notare le virgolette: come se Luca non ci credesse davvero, che le sue pretese sono sacrosante]. Comunque sono fiducioso che il mio contributo sarà “premiato”» [un regalino al bimbo bravo?].
Giulia: «A dir la verità non l’ho chiesto, ma per un semplice motivo: non ce ne sarà bisogno [!], perché ci arriverei tranquillamente in bicicletta e in pausa pranzo, riuscirei a tornare sempre a casa [viva la mamma!]. Hanno già ospitato altri tirocinanti (che vedo abitualmente in biblioteca durante le ore di studio) e, a tal proposito, mi sono informata preventivamente da loro e mi hanno confermato di essersi trovati bene: i responsabili sono stati disponibili e corretti» [insomma per fortuna non mangiano i bambini…].
Marco: «Il tirocinio non sarà retribuito e devo ammettere che rientro probabilmente nella categoria di chi ritiene normale e giusto accettare tirocini gratuiti, come lei dice sul suo blog. In particolare ritengo forse accettabile fare questo tirocinio poiché lo considero come una possibilità per fare esperienza e non come un dovere da espletare necessariamente per conseguire crediti (e le assicuro che molti colleghi la vedono unicamente così). […] La mancanza di retribuzione o “volontariato” che dir si voglia, è un prezzo che sono disposto a pagare in questo caso» [Marco appare più consapevole, ma ha ormai deciso di accettare e a me non resta che autorizzarlo].
Roberto: «Non ci sono rimborsi spese, ma questo non è un problema perché l’agenzia si trova vicino casa mia [di nuovo: è la motivazione più diffusa]. Il lavoro è lavoro di ufficio abbinato all’organizzazione dell’evento, ossia accompagnare la titolare a un convegno, fiera o quel che sia, seguire l’organizzazione dell’evento e ovviamente aiutare… tutto qua» [pare tutto meno che un tirocinio interessante, eppure Roberto è pronto a farlo. Perché chi si contenta gode, o perché lo considera un obbligo per ottenere crediti, come diceva Marco?].
Elena: «Per quanto riguarda il rimborso effettivamente non l’ho chiesto perché credevo non lo desse nessuno, devo essere sincera… In ogni modo mi sono informata e dove lo vorrei fare io non c’è possibilità, però ci tengo a farlo lì e ne farò a meno se non si riesce ad avere purtroppo…» [infatti non sono riuscita a dissuaderla].
C’è poi chi mi chiede l’autorizzazione addirittura a tirocinio già cominciato. Dopo un rimprovero da parte mia e la fatidica domanda, in genere rispondono come Claudia:
«Il tirocinio comunque l’ho trovato nella lista dei tirocini dell’Università di Bologna, è molto interessante e mi stanno facendo lavorare all’organizzazione di un congresso, con fondazioni bancarie e rappresentanti regionali, purtroppo non è retribuito ed è uno stage di 3 mesi. Lunedì vado a prender tutte le carte all’ufficio tirocini, pensa che possa esser un buon tirocinio?»
Ma per fortuna c’è anche chi, dopo tre quattro mail o dopo un colloquio approfondito (ma che fatica!), alla fine mi scrive, come fa Giovanni:
«Grazie prof. Dopo averci pensato e ripensato ho deciso che l’azienda non fa per me. Ora ne cerco un’altra e le so dire.»
Evviva. Insomma, in tanti anni mi sono fatta una statistica personale: non è rappresentativa di altro all’infuori della mia esperienza, ma tant’è. Su 100 ragazzi e ragazze che mi chiedono l’autorizzazione a svolgere un tirocinio curricolare, solo 10 sono già consapevoli, perché si sono informati, hanno letto il mio blog o altri siti, hanno chiesto ad amici e parenti. Un’altra ventina riesco a convincerli io a cambiare azienda, per ottenere almeno un piccolo gettone di rimborso spese. Ma gli altri 70?
*Giovanna Cosenza è docente di Semiotica all’Università di Bologna e autrice del blog Dis.amb.iguando