E dopo 15 anni di sbagli per la Cgil arriva la resa dei conti

E dopo 15 anni di sbagli per la Cgil arriva la resa dei conti

Sono due le foto rubate dal libro dei ricordi degli ultimi 17 anni della Cgil che più inorgogliscono i dirigenti di corso d’Italia. La prima è scattata il 12 novembre del 1994, quando il giovane segretario Sergio Cofferati portava un milione di persone in piazza (con l’adesione anche di Cisl e Uil) per protestare contro la riforma delle pensioni voluta dal primo governo Berlusconi. Ancora oggi i compagni la raccontano come un trionfo: centrodestra sconfitto e abbrivio alla prima caduta del Cavaliere.

La seconda risale al 23 marzo 2002. Sempre Cofferati leader che coinvolge 3 milioni di cittadini in difesa dell’articolo 18. Sarà ricordata come la più grande manifestazione dal dopoguerra: mette con le spalle al muro l’odiato Cav e “il suo” presidente di Confindustria, Antonio D’Amato. Ma soprattutto lancia verso il più consono scenario della politica il segretario a fine mandato.

Bene. Oggi, a più di tre lustri di distanza, quelle foto vanno riviste da una prospettiva diversa. Perché le riforme prioritarie per il Paese non sono cambiate: previdenza e mercato del lavoro. Solo che a chiedercele non è più Silvio il cattivo ma la Banca Centrale Europea che brandisce la tagliola dei mercati pronta a caderci sulla testa. Insomma, con gli anni quegli scatti si sono trasformati da simbolo di campagne vittoriose a rappresentazione di occasioni mancate.

Per il Pci-Pds-Ds-Pd Non sarebbe stato opportuno smarcarsi dalla contiguità con la Cgil? Dal punto di vista del sindacato invece si doveva guardare meno agli interessi della maggior parte dei tesserati (pensionati e contratti fissi) e di più a quelli delle generazioni a venire (che poi saranno gli iscritti del futuro)? Era possibile passare dai signori del “no” a quelli del “troviamo una soluzione”? Sono queste le domande che i dirigenti più lungimiranti si fanno. Ma che trovano una risposta eloquente nelle recente appello lanciato dalla Camusso a Monti: «Non ci rovini la festa per la caduta di Berlusconi…».

Ma cosa abbia da festeggiare Susanna è davvero difficile da capire. I fatti dicono che in questi anni il carrozzone rosso ha vinto le battaglie, ma alla fine ha sempre perso le guerre. Su pensioni e mercato del lavoro la strada ormai è tracciata: il contributivo per tutti da una parte e il contratto unico con la cancellazione dell’articolo 18 dall’altra. E allora ci si domanda: e se la Cgil avesse ceduto all’epoca della riforma Dini? Se avesse concesso di più rispetto a quell’insopportabile iniquità tra chi nel ’95 aveva 18 anni di contributi (in pensione con il retributivo) e chi ne aveva meno (in pensione con il contributivo)? Forse oggi anche chi prende un assegno da mille euro non sarebbe costretto al blocco della rivalutazione.

E lo stesso discorso vale per i licenziamenti: il diritto di reintegro nelle aziende con più di 15 dipendenti (l’articolo 18 appunto). Tra l’abrogazione e il considerarlo un tabù c’erano delle vie di mezzo (per esempio alzare la soglia a trenta dipendenti) delle quali i vari Cofferati, Epifani, Camusso e compagni non hanno mai voluto sentir parlare. Morale della favola: oggi, con disoccupazione giovanile al 30% e un livello di precarietà del lavoro tra i più alti in Europa, si trova con le spalle al muro. Il problema è che gli iscritti della Cgil (ma anche di Cisl e Uil) sono quasi tutti dei lavoratori a tempo indeterminato e a molti mancano pochi anni per arrivare alla pensione. E davanti alla scelta tra la tutela dei propri tesserati e l’apertura di nuove possibilità per i giovani, in corso d’Italia non hanno mai avuto dubbi.

Manifestazione della Cgil, settembre 2010 (Afp)La manifestazione della Cgil al Circo Massimo il 23 marzo 2002

Per non parlare della Fiat. Dove i riformisti, messi all’angolo dalle spinte massimaliste della Fiom, hanno sempre combattuto in posizione di retroguardia. Pochissime proposte e mille scioperi. E alla fine cosa hanno ottenuto? Marchionne è uscito da Confindustria e il modello Pomigliano (quello che prevede più straordinari e flessibilità del lavoro, ma anche maggiori retribuzioni) si estenderà a tutte le fabbriche italiane del Lingotto. Emblematico è il caso della riforma del modello contrattuale, la volontà cioè di dare più importanza ai contratti firmati in azienda, di legare maggiormente gli aumenti salariali alla produttività. Se ne parla da una vita. Ma Epifani (è stato alla guida della Cgil dal 2002 al 2010 ) ha sempre detto di no. Lo ha fatto con Montezemolo presidente di Confindustria e l’ha confermato alla Marcegaglia. Poi è arrivata la Camusso, che nel momento più alto della sua breve leadership ha firmato l’intesa. Sono passati pochi mesi e quell’accordo è stato superato dai fatti. La crisi è precipitata e l’Europa ci ha chiesto di fare in fretta e furia quello che anni di veti sindacali ci avevano impedito.

Perché la Cgil non si è smossa prima? Nel 2007 il suo centro studi (Ires) nel presentare un rapporto tra salari e produttività evidenziava che tra il 1998 e il 2006 le retribuzioni lorde erano aumentate del 18,4% in Inghilterra, del 16% in Francia e del 5% in Germania. Da noi si fermavano al 2,6%. Un bel problema: che secondo corso d’Italia si risolveva chiedendo con nuovi aiuti di Stato e non modificando il contratto nazionale.

E del resto volendo entrare nelle pieghe delle crisi aziendali che hanno attraversato gli ultimi decenni del Paese l’elenco delle occasioni mancate dai compagni del sindacato potrebbe continuare all’infinito. Prendiamo l’Alfa di Arese. Quaranta anni fa era il simbolo delle imprese statali italiane. Produceva l’Alfa Romeo, faceva capo all’Iri e dava lavoro a 20 mila persone. Sempre in perdita, costante. Per la felicità dei sindacati, la Fiom (cioè la Cgil) su tutti. Fino a quando il rosso è diventato intollerabile e l’Iri non è stata costretta, siamo nel 1986, a cederla alla Fiat per 1.700 miliardi di lire. Il mercato dell’auto, però, va male, i livelli di pressione sindacale nella fabbrica restano altissimi e gli addetti calano fino ad arrivare ai 4.000 del 1997. È crisi nera. Bisogna trovare una soluzione. E qui succede l’incredibile: la Fiom rifiuta qualsiasi proposta per riqualificare l’area. C’è una multinazionale Usa che vorrebbe farne un polo logistico per depositare e smistare merci sfruttando la vicinanza con l’aeroporto di Malpensa e la Fiera di Milano. Ma niente. Per i metalmeccanici rossi si tratta di un progetto estraneo alla tradizionale vocazione dello stabilimento. Nel 2004, invece, l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, propone di riservare a 200 cassintegrati di Arese le nuove licenze per i taxi. Posto sicuro e buoni guadagni. Non l’avesse mai fatto. I compagni si indignano: siamo operai mica tassisti.

Tanto per capirci: ad Arese per anni la Cgil ha detto no a posti di lavoro e alla possibilità di riconvertire il sito industriale a vantaggio di cassa integrazione, blocchi stradali a oltranza e velleità di condizionare la politica industriale del Paese («lì si producono auto e non altro»). Peccato che il mondo stia andando in tutt’altra direzione. Nei Paesi scandinavi, indicati come modello di welfare, se sei senza lavoro hai il sussidio pubblico e la possibilità di riqualificarti, se però non accetti un nuovo impiego lo Stato ti abbandona.

Pensi: avranno imparato la lezione. E invece ti sbagli. Basta ripercorre le storie di Alitalia, delle Ferrovie dello Stato o la vicenda meno pubblicizzata di Fincantieri. Da anni si auspica la sua quotazione in Borsa, parliamo di una società con novemila addetti controllata quasi completamente dalla Stato (prima l’Iri, oggi Fintecna) e tra i leader nella costruzione di navi da crociera. Siamo nel 2006, il mercato si fa difficile e i manager del gruppo hanno bisogno di nuovi capitali per affrontare la concorrenza. Arriva il piano industriale. Sono previste nuove assunzioni, ma il sindacato pone il veto. Chi? Manco a dirlo: su tutti la Fiom, che la spunta. Piazza Affari diventa un miraggio. E oggi, dopo un lustro di discussioni, audizioni parlamentari e proteste siamo qui a parlare di licenziamenti a raffica (2.500 esuberi, la chiusura dello stabilimento di Sestri Ponente e il ridimensionamento di quello di Riva Trigoso), ricavi in calo (dai 3,26 miliardi di euro del 2009 ai 2,87 del 2010) e di perdite in aumento (da 64 milioni del 2009 ai 124 del 2010). Il risultato politico però i nostri l’hanno portato a casa: abbiamo evitato – dichiarano tronfi – che un altro pezzo cosa pubblica finisse in mano ai privati.

Del resto che importa se i disoccupati aumentano e il potere d’acquisto dei salari diminuisce: loro ci piazzano un bello sciopero e tutto si risolve. L’ultimo contro il governo Monti. La Cgil si lamenta perché i sindacati sono stati snobbati, sentiti un paio d’ore di domenica mattina, quasi a soddisfare un pro forma. E perché alla fine dalle misure dei professori sono soprattutto i pensionati più poveri e i giovani a uscirne con le ossa rotte. Tutto vero, ma se guarda alle sue spalle troverà tante occasioni sprecate per evitare l’ennesima stangata sulla classe media. Quella che un sindacato con la “s” maiuscola avrebbe dovuto tutelare.

Sciopero dei lavoratori davanti all’Alfa Romeo di Arese nel 1966 (Silvestre Loconsolo, Lombardia Beni Culturali)Lo stabilimento di Arese

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