«No, noi non uccidiamo il nostro popolo». Lo ha detto il presidente siriano Bashar al Assad, in un’intervista rilasciata alla ABC il 7 dicembre scorso. Certo, esistono gli scontri – riconosce – ma sono episodi di resistenza contro gruppi armati di «terroristi», nemici della Siria, che vogliono solo rovesciare il governo. Non c’entrano nulla con la libertà e la democrazia. Sì, ci sono anche i morti, concede il presidente. Ma la maggior parte, spiega paziente Bashar al Assad, deriva dalle file del regime. E tutte le immagini, le fotografie e le testimonianze non costituiscono materia credibile. «Lei non vive qui – ha risposto alla giornalista Barbara Walters – come può sapere cosa succede davvero?».
Intanto, vicino alle sedi dei servizi segreti a Damasco sono scoppiate due bombe, che hanno ucciso, secondo la televisione di stato, «civili e militari». I numeri si aggirano sui 30 morti e i feriti 55. Secondo Damasco le bombe erano piazzate in automobili. Si parla anche di attentati kamikaze. I responsabili? Il regime non ha dubbi: «terroristi di Al Qaeda». Chissà. Ma ormai la situazione è confusa, complessa. E la guerra civile, ormai, sembra cominciata.
In molti si sono domandati se Bashar al Assad fosse pazzo. La verità, sempre più concreta, è che sia disperato. Da un lato, servendosi della minaccia terroristica, continua a farsi scudo e a coprirsi con la mancanza di trasparenza e il controllo, sistematico, dell’informazione. Così tenta una difesa della sua immagine all’estero. Dall’altro, sul fronte interno, agisce continuando a colpire i dissidenti.
E così la repressione è diventata sempre più dura: i morti sarebbero 5 mila, mentre aumenta la brutalità delle repressioni. Come spiega l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, con sede a Londra, solo martedì gli uccisi negli scontri sarebbero stati 111. Ieri, almeno 40. Nel frattempo, sul fronte dell’opposizione aumentano le defezioni dei militari, che si sono riuniti in un nuovo esercito: il Free Syrian Army. I soldati di Assad ora hanno di fronte a sé nemici più esperti e armati rispetto alla popolazione civile. Per correre ai ripari, il 20 dicembre il governo avrebbe introdotto la pena di morte per chi fornisce armi ai “terroristi”, cioè agli oppositori del regime. Sono tutte mosse che lasciano vedere come Assad non riesca a trovare una via d’uscita.
Contro di lui, ormai c’è quasi tutto il mondo. Dal marzo di quest’anno il regime ha messo in opera vere e proprie azioni militari contro le città in rivolta: cosa che ha causato la condanna pressoché unanime dei paesi occidentali e di gran parte dei paesi islamici vicini. Ora i segnali per il regime siriano si fanno più inquietanti. L’Arabia Saudita ha deciso, secondo quanto riporta il quotidiano Al Watan, di chiudere la sua ambasciata a Damasco. Il personale era stato già ridotto. Ma ora, di fronte al persistere delle violenze la decisione è presa. A quanto sembra Riyad sarà capofila in questa operazione. La Siria si sta trasformando in un terreno di guerra?
La caduta di Assad ormai è certa, almeno secondo gli Stati Uniti. E si possono aprire situazioni politiche nuove. A difendere il presidente sono sempre di meno. Neanche la Russia. Putin, anche in nome di un’alleanza di vecchia data (e agli interessi della base portuale di Tartous, dove sono presenti sottomarini di Mosca), aveva sempre combattuto a suo favore. Non ultimo, il contrasto a una risoluzione sul caso siriano dell’Onu a ottobre. Il rischio, spiegava Mosca, è che finisca come in Libia (o in Iraq) Ed era meglio evitare il conflitto, anche per salvaguardare i propri interessi
Ora, però, anche Mosca si è defilata. Il suo interesse a mantenere lo status quo rimaneva tale finché la possibilità di mantenere Assad al potere risultava realistica. E ora, invece, la Russia ha cominciato a muoversi in direzioni diverse. Non si oppone più alle sanzioni, apre alla Lega Araba. Anzi, media: l’unica via per aprire il dialogo e salvare la situazione, secondo Mosca, è proprio il suo piano di pace proposto lunedì. Farà pressioni perché venga approvato, introducendo (è sarebbe la prima volta) anche una censura sulla repressione operata da Damasco. Significa che Assad, per loro, è ormai finito.
Ma lui, il presidente, non si arrende. Non ha più niente da perdere: prima dell’arrivo degli osservatori esterni, già iniziato ma che terminerà entro domenica, il regime ha deciso di organizzare manifestazioni di piazza oceaniche in suo favore. Un modo per far vedere (e far credere) che il popolo sia ancora con lui. Ma le bombe di stamattina fanno tremare tutto. E, se il presidente è davvero spacciato, lo dirà solo il tempo. Quello rimasto, però, sembra essere davvero poco.