La crisi ormai non è più solo europea, ma globale. L’intervento coordinato delle principali banche centrali mondiali, il secondo nell’arco di due mesi, ha sancito il carattere mondiale di una crisi troppo erroneamente ritenuta passeggera e circoscritta. L’eurozona rischia di collassare su stessa e il prossimo vertice europeo del 9 dicembre sarà il punto di svolta. Le istituzioni monetarie globali hanno fatto il primo passo, ora tocca ai governi europei. L’obiettivo è quello di evitare la disgregazione della zona euro, nonostante il mondo della finanza si stia preparando già al peggio.
Crisi di liquidità. Il sistema interbancario europeo, cioè quello in cui i singoli istituti di credito rifinanziano le loro operazioni giorno per giorno, è congelato. Questo fenomeno è stato ricordato anche oggi dal presidente della Bce Mario Draghi, che ha spiegato che le banche preferiscono depositare i fondi presso l’Eurotower invece che nelle operazioni con gli altri istituti bancari. Oggi i depositi presso la Bce sono stati superiori a 300 miliardi di euro e non sempre nelle ultima settimana la banca centrale è riuscita a drenare la liquidità erogata. L’ultima ricerca sul sistema bancario europeo, compiuta dall’agenzia di rating Standard & Poor’s, ha evidenziato come il problema della liquidità sta diventando sempre più esteso. In aprile i fondi statunitensi del mercato monetario, i Money market fund (Mmf), hanno iniziato a tagliare i fondi destinati all’Eurozona, sterilizzando la liquidità per evitare shock esogeni e preservare i propri portafogli. Questo ha però creato un credit crunch che ha impattato con notevole rilevanza sulle banche francesi e italiane. L’operazione delle sei principali banche centrali mondiali (Bce, Bank of England, Federal Reserve, Bank of Japan, Bank of Canada e Swiss National Bank), decisa ieri, ha proprio questa funzione: rifornire di liquidità un sistema quasi a secco.
Crisi di stabilità. Lasciando la speculazione e il complottismo da un’altra parte, l’eurozona sta soffrendo perché non riesce a trovare un coordinamento sulla ricetta per uscire dalla tempesta. Dato per assodato che l’attuale assetto non funziona più, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha ragione su un punto. «Per risolvere questa crisi occorreranno anni, non è possibile pensare che ci sia una soluzione nell’arco di giorni o settimane», ha detto alcune settimane fa. Per fare questo, si sta cercando di creare un assetto capace di contemplare una riforma dei Trattati e un’uscita ordinata dall’eurozona, dato che l’articolo 50 del Trattato di Lisbona disciplina l’uscita dall’Europa, ma non dalla zona euro. Inoltre, Francia e Germania stanno spingendo per l’adozione di un meccanismo sanzionatorio per tutti i Paesi che non rispetteranno gli obiettivi di bilancio dell’Ue. L’obiettivo è quello di evitare quanto successo con la Grecia, che in più di un’occasione ha dimostrato la sua inaffidabilità sotto il profilo dei conti pubblici. Tuttavia, con 17 economie, 17 voci e 17 interessi differenti, l’eurozona è quanto di più incerto esiste per un investitore. In più l’euro è una moneta che ha una banca centrale, ma non un ministero del Tesoro, altro fattore di debolezza. Infine, il mandato della Bce prevede solo un controllo sulla stabilità dei prezzi, dato che Francoforte non può agire come la Federal Reserve americana, ovvero come prestatore di ultima istanza. Quest’ultimo punto, alla base delle discussioni tra Francia e Germania, non sarà rivisto, come ha specificato Angela Merkel. Saranno invece aumentate le armi in dotazione alla Bce, sotto il profilo della liquidità verso le banche tramite lo swap di asset collaterali a garanzia.
Italia nella tempesta. Un mese fa Silvio Berlusconi giocava le sue ultime carte come presidente del Consiglio, mentre già si poteva capire quale sarebbe stato il suo successore a Palazzo Chigi, ovvero Mario Monti. Nonostante il cambio politico abbia ridato parte della credibilità, l’Italia è ancora sotto pressione. Colpa della manca di fiducia che gli investitori hanno in merito alla tenuta dei conti pubblici, del piano di riforme e del programma di crescita economica. Lo spread, ovvero il differenziale di rendimento, fra i titoli di Stato decennali italiani e tedeschi continua a essere vicino, se non oltre, i 500 punti base. Analogamente, il prezzo dei Credit default swap (Cds) ha registrato una flessione, anche se i valori si mantengono su livelli di vigilanza. In più, c’è il costante rischio di un ulteriore downgrade del debito sovrano.
Recessione in arrivo. I centri di ricerca delle banche d’investimento e le istituzioni economiche internazionali hanno già certificato quanto gli economisti dicevano da tempo. Nel 2012 la crescita economica dell’eurozona tornerà in territorio negativo. Lo scenario sarà particolarmente pesante per l’Italia, che deve ancora mettere in campo i due piani, consolidamento fiscale e riforme, richiesti dall’Ue per scongiurare uno scenario greco. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha spiegato in questa settimana che il quadro congiunturale 2012 per Roma è già delineato. Per Monti attuare le riforme in questo contesto potrebbe rivelarsi ancora più difficile di quanto immaginato. Inoltre, sta crescendo il fronte che vede la situazione italiana simile a quella greca, invocando per Roma lo spettro della ristrutturazione del debito. Facile pensare ciò con 1.900 miliardi di euro di stock sulle spalle, più difficile farlo considerando l’importanza sistemica dell’Italia.
Il ruolo delle banche centrali. Lo sforzo maggiore per arginare la crisi finanziaria europea lo sta facendo la Bce. L’istituzione guidata da Mario Draghi, tramite il Securities markets programme (Smp), sta acquistando quasi con cadenza quotidiana i titoli di Stato dei Paesi periferici più sotto pressione, Italia e Spagna. Ma l’azione di Francoforte da sola non basta. Ecco perché oggi, dopo il primo round dello scorso settembre, le sei principali banche centrali mondiali hanno deciso di coordinarsi per un’azione di taglio dei tassi sugli swap nel mercato interbancario. Forse non basterà, ma è l’inizio di un programma più ampio, che prevederà un coinvolgimento su scala globale per arginare la situazione. Si tratta però di una misura d’emergenza, a cui dovrà seguire uno sforzo della politica, senza il quale l’impegno delle autorità monetarie del mondo sarà stato vano.
Il ruolo del Fmi. L’istituzione di Washington monitora attivamente lo stato dell’economia globale da tempo. Il suo ruolo di controllore è fondamentale per agire in modo tempestivo. È quindi normale che il Fmi abbia avuto i primi contatti con le autorità italiane in luglio, quando lo spread passò da 183 a 332 punti base nell’intervallo di tempo compreso fra il 1 e il 18 luglio. Le conferme sono arrivate anche al G20 di Cannes, dove gli sherpa del Fmi hanno avuto lunghi colloqui con i funzionari dei diversi Stati dell’eurozona, al fine di coordinare un’azione capace di frenare l’escalation di sfiducia. In particolare, la discussione di questi giorni verte su un’eventuale sostegno finanziario a Italia e Spagna, in grado di garantire una copertura finanziaria per il prossimo anno. L’obiettivo sarebbe quello di allentare la pressione per permettere l’attuazione dei piani di austerity e riforme di cui sia Roma sia Madrid hanno bisogno. Il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, ha più volte smentito le voci di un bailout di Spagna e Italia, ma ha sempre garantito la sua presenza. In altre parole, il Fondo c’era, c’è e ci sarà. Non sarà però l’unico attore.
Il collasso dell’euro. Ogni giorno, una nuova ricerca avverte il mondo del pericolo di un completo deragliamento dell’eurozona. Quella che era un’ipotesi solo di studio, si sta lentamente concretizzando, sulla scia della teoria delle profezie auto-avveranti. Ieri il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, ha spiegato che ci sono due vie per l’Europa: «O maggiore integrazione o lenta disgregazione». Ha ragione. La linea tracciata da Francia e Germania, a cui si è unita da poco anche l’Italia, è quella di una riforma dei Trattati. Più coordinamento centrale, meno sovranità nazionale: questa è una delle carte che Merkel e Sarkozy vogliono giocare per evitare un tracollo. Nel frattempo, però, le istituzioni finanziarie internazionali si stanno già preparando al peggio. CLS, la maggiore clearing house del mercato valutario mondiale, sta testando la resistenza del sistema forex globale nel caso l’euro scomparisse. Invece ICAP, il più grande interdealer broker del mondo, sta compiendo stress test sui cross valutari dracma/euro e dracma/dollaro, nel caso la Grecia uscisse dall’eurozona. Infine, la Financial services authority (Fsa), l’organo di vigilanza finanziaria britannica, ha chiesto agli istituti bancari del Regno Unito di prepararsi a un collasso della moneta unica.
Cosa succederà nel breve termine. Molto dipende dalle mosse che saranno compiute nei prossimi venti giorni. Il vertice europeo del prossimo 9 dicembre dovrà dare una risposta all’incertezza degli operatori finanziari. Più passa il tempo, più il rischio di un collasso cresce. L’esperienza della crisi ellenica ha dimostrato che la ristrutturazione del debito, finora mai considerata tale dalle istituzioni di regolamentazione, poteva e doveva essere fatta prima. Eppure, dopo due salvataggi, dopo un cambio di governo e dopo l’assunzione che un taglio del 21% del valore nominale dei bond greci detenuti in portafoglio dalle banche, ancora non c’è una soluzione chiara per il futuro di Atene. Il premier George Papandreou, durante il G20 di Cannes, aveva invocato un referendum per la permanenza delle Grecia nella zona euro. Ora il nuovo primo ministro, Lucas Papademos, ha ribadito che non esiste una soluzione che preveda l’uscita di Atene dall’euro. Parole smentite dalla Banca centrale di Grecia, che ha invece detto che è una delle possibilità. La certezza è una sola. Se cade uno Stato, l’eurozona è destinata a una lenta disgregazione. Lo ha detto esplicitamente Olli Rehn, lo ha detto implicitamente Mervyn King, governatore della Bank of England, specificando che quella europea «non è una crisi di liquidità, ma di solvibilità». Il primo passo è stato fatto dalle banche centrali. I successivi dovranno essere fatti dai governi. Con la speranza che ci sia ancora tempo.