Ha detto ieri Bersani: «Il governo non resti sordo alle nostre idee». L’invito, o implorazione, rappresenta bene lo stato di ansia che pervade il Pd alla vigilia delle misure annunciate dal governo. Lunedì non solo il Paese conoscerà la portata della sberla che sta per ricevere ma, di fatto, inizierà anche il congresso del Pd. Molto ci siamo soffermati nell’ultimo periodo sullo scambio di segnali di guerra fra l’ala liberal e quella socialdemocratica, che la vulgata preferisce definire conservatrice, ma poco si è ragionato sul prezzo che il vincitore mancato, o rinunciatario, delle elezioni anticipate rischia di pagare in termini di consenso. Malgrado il Pd in nulla assomigli ai tradizionali partiti di sinistra, né come ispirazione né come struttura, è un dato di fatto che in esso si riconosca in gran parte il lavoro dipendente. Non è una rappresentanza esclusiva. I flussi elettorali ci hanno detto che molti operai del Nord votano Lega e nel berlusconismo c’è molto popolo minuto.
Tuttavia la rappresentanza politica del vasto mondo dei lavoratori dipendenti e dei pensionati costituisce probabilmente lo zoccolo duro dell’elettorato dei democratici. Ogni modifica, presente o futura, della loro condizione rischia di incrinare questo rapporto. Non è quindi per conservatorismo o per pregiudizio ideologico che Bersani è stato molto cauto nell’incoraggiare Monti sul tema previdenziale. Il mondo che guarda con apprensione alle misure sulle pensioni trova inoltre ampia rappresentanza nel sindacato e non è immaginabile che Bersani voglia o possa entrare in rotta di collisione con le Confederazioni e in particolare con la Cgil. Ne terrà conto il presidente del Consiglio?
Ci sono molte buone ragioni perché Monti non sottovaluti quel che accade in questa parte del parlamento che lo appoggia. In primo luogo perché Bersani e il suo partito, con una scelta coraggiosa frutto anche della difficoltà di immaginare uno scontro elettorale senza coalizione senza leadership, è l’alleato più serio che il nuovo premier dispone. A differenza di altre formazioni politiche, nell’appoggio del Pd a Monti non c’è retropensiero. In secondo luogo solo il consenso e la solidità del Pd possono consentire che il conflitto sociale, che inevitabilmente si svilupperà, possa articolarsi in forme compatibili con la durata del governo e con la fortuna della sua mission. Monti non può fare a meno di alcun partito che lo appoggia, ma soprattutto non può fare a meno del Pd.
Monti potrebbe, però, essere sospinto a dar poco conto alle inevitabili tensioni interne a quel partito e al rischio di collisione fra il partito e una parte della sua base. Potrebbe cioè considerare un prezzo minore il fatto di travolgere con la propria iniziativa la struttura e la natura del suo più leale alleato. Potrebbe essere indotto a pensare, come pensano molti “riformisti” del Pd, che l’aver partecipato alla salvezza del paese sia una buona ragione per il Pd per ingoiare tutti i rospi. Il dilemma potrà essere in parte risolto se nei primi provvedimenti di Monti apparirà chiara la compresenza di misure che possano far annunciare ai leader del Pd che c’è equità. Bersani potrà affrontare meglio la difficile battaglia sulla previdenza se Monti su patrimoniale e costo del lavoro riuscirà a proporre cose innovative.
È sintomatico che quando ieri la ministra Fornero ha parlato di reddito di cittadinanza si è presa molti applausi a sinistra. Tuttavia anche questo potrebbe non bastare. Il tema previdenziale si porta appresso un’idea della società, una narrazione direbbe Vendola, che non può essere sottovalutata. Per quanti sforzi facciano i cosiddetti riformatori il tema dello scambio fra pensioni differite e lavoro promesso non appare convincente a molti elettori di sinistra. Innanzitutto perché si scontra con progetti di vita consolidati. Milioni di italiani dovranno riscrivere il proprio futuro. In secondo luogo perchè non è passato l’idea, in verità un po’ bislacca, che all’origine della crisi italiana, e del suo debito pubblico, ci sia un’ipertrofia dei sistemi di protezione. La carica antipolitica e la rivolta contro la casta, che scandalizza Massimo D’Alema, indicano invece una percezione della crisi del paese come frutto di ineguaglianze e di parassitismo della classe dirigente, di quella politica in particolare.
Una manovra incentrata prevalentemente sul sistema pensionistico avrebbe l’effetto di convincere milioni di italiani che vivono sul filo della sopravvivenza che il peso dei sacrifici è interamente gettato sulle loro spalle. Il Pd è un argine a questo rischio di trasformazione della protesta sociale in un indistinto moto popolare contro la politica. Salvaguardare il Pd è la polizza d’assicurazione non solo del governo Monti ma anche del sistema democratico. Da lunedì questi temi sconvolgeranno il dibattito interno al partito di Bersani approfondendo il contrasto fra le sue due anime. Forse comincerà per la prima volta ad incrinarsi su una questione seria quel patto costituente che ha dato vita alla nuova formazione politica. Se la crisi del blocco sociale berlusconiano può dar nascere processi democratici che liberino forze dalla cappa populista, la crisi del Pd può aprire scenari meno rassicuranti. Monti faccia quel che deve fare, ma sappia che un colpo di accetta rischia non solo di segare l’albero su cui è seduto ma anche di sconquassare il campo della sinistra senza che siano oggi disponibili altre alternative. Poi accada quel che deve accadere.