“Nessun presidente ha usato l’omicidio segreto quanto Obama”

"Nessun presidente ha usato l'omicidio segreto quanto Obama"

Negli Stati Uniti il 2012 si apre con un elettorato democratico svogliato e depresso. È improbabile che nei prossimi mesi, con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre, assisteremo a una mobilitazione giovanile paragonabile a quella che nel 2008 portò Obama alla presidenza. Molte delle promesse che Obama fece nella campagna elettorale di tre anni fa non sono state mantenute, e in molti casi, specie in politica estera, la strada scelta appare la continuazione di quella percorsa da George Bush.

Obama aveva cominciato la sua presidenza giurando che avrebbe chiuso il carcere di Guantanamo, processato legalmente i detenuti in terra americana e rispettato le norme internazionali sotto l’egida dell’Onu. Ma tre anni dopo nessuna di queste promesse è stata mantenuta: il carcere è ancora in funzione e ospita 171 detenuti, nessuno dei quali ha avuto un regolare processo sul territorio Usa. Inoltre la lotta antiterrorismo di Obama è centrata su uso crescente di azioni segrete e illegali basate sull’uso di “droni”, aerei senza uomini a bordo che operano al di fuori di qualunque norma di diritto internazionale, senza rendere conto a nessuno, neanche al Congresso.

Partiamo da Guantanamo. Un recente studio del Pentagono sostiene che il carcere, situato all’interno della base militare americana in territorio cubano, è costato agli Stati Uniti 52 miliardi di dollari tra il 2002 (quando fu creato da Bush) e il 2009. Oggi, solo per la gestione, vengono spesi 180 milioni di dollari all’anno. Ci sono 1.850 soldati per badare a 171 prigionieri, ciascuno dei quali costa 800 mila dollari all’anno.

All’inizio della sua presidenza Obama aveva promesso che il carcere sarebbe stato chiuso entro la fine del 2010. Poi la data è slittata al 2013 ma nessuno si illude che la scadenza sarà rispettata. Il senatore Carl Levin, democratico del Michigan, dice che la soluzione del problema è ostacolato da una crescente “inerzia”. Chiudere il carcere sembra non interessare più a nessuno.

Obama aveva promesso che i detenuti sarebbero stati trasferiti negli Stati Uniti per ricevere regolare processo. Per fare ciò era stato individuato un carcere di massima sicurezza nell’Illinois. Ma il Congresso ha negato i fondi per l’acquisto della prigione e il progetto è rimasto incompiuto. Secondo le norme fissate nel 2009, almeno 80 degli attuali 171 detenuti dovrebbero essere reimpatriati. Ma il Congresso rende impraticabile questa soluzione perché i paesi coinvolti (Yemen, Pakistan, Afghanistan…) non sono giudicati abbastanza stabili e affidabili. Gli ultimi due prigionieri hanno lasciato la prigione dentro due bare, a febbraio e a maggio. Sono stati spediti in Afghanistan, loro terra di origine. Non c’erano prove per incriminarli e processarli, ma erano considerati troppo pericolosi per essere rilasciati. Appartenevano al nutrito gruppo di “prigionieri a tempo indeterminato”, secondo la definizione di Obama.

Il ministro Leon Panetta (o lo stesso presidente Obama) potrebbero firmare il foglio di via e consentire la liberazione dei detenuti (la maggioranza) verso i quali non sussiste alcuna prova a carico. Ma temono che si ripeta quanto già accadde nel 2008, quando un ex prigioniero di Guantanamo, liberato nel 2005, si fece saltare in aria in Iraq. Come essere certi che altri prigionieri, in futuro, non compiranno gesti di terrorismo contro gli Usa?

Fino a oggi i giudici hanno rinviato a giudizio otto prigionieri. La Corte marziale di Guantanamo ne ha processati e condannati sei (altri due sono in lista di attesa). Quattro di essi si sono dichiarati colpevoli di reati minori e sono stati condannati a pochi anni di carcere. La sentenza ha ottenuto l’effetto di farli spostare in un carcere di massima sicurezza vuoto (oggi a Guantanamo ce ne sono quattro) e lì lasciati fino alla fine della pena, quando potranno essere riportati nel carcere d’origine, assieme ai loro compagni. Infatti, anche se hanno scontato la pena non possono essere liberati, essendo considerati “unprivileged enemy belligerant”, nemici combattenti senza i privilegi della Convenzione di Ginevra.

Carol Rosenberg, giornalista del Miami Herald, in un straordinario saggio pubblicato recentemente su Foreign Affairs (Why Obama Can’t Close Guantanamo), scrive che il destino dei detenuti di Guantanamo è degno di un romanzo di Kafka. Prima di essere eletto Obama promise che la sua stella polare sarebbe stata la legge internazionale. Poi ha cambiato idea. Greg Miller, in un’accurata inchiesta pubblicata il 13 dicembre dal Washington Post, ha rivelato che gli Stati Uniti possiedono una flotta di 775 droni telecomandati (Predator o Reaper) celati in una dozzina di basi segrete. E altre centinaia di esemplari sono in costruzione. Inoltre la Cia possiede un numero imprecisato di droni di tipo Stealth (invisibili ai radar) la cui esistenza non è mai stata ammessa dal governo. Uno di questi (un RQ-170) è caduto in territorio iraniano poche settimane fa in seguito a un malfunzionamento.

A cosa servono questi aerei? Per esempio a uccidere i terroristi elencati in una “kill list” riservata, di cui nessuno sa nulla e che il Congresso degli Stati Uniti non può discutere. È una guerra silenziosa e asettica che viene condotta dalla Cia e dal Joint Special Operations Command, senza clamore, nell’Asia meridionale e in Medio Oriente. Senza dover chiedere permessi all’Onu, inviare truppe, versare sangue americano. Non si tratta di una novità assoluta. I presidenti americani hanno sempre utilizzato le azioni coperte dei loro servizi segreti per raggiungere obiettivi di sicurezza nazionale. Ma Miller sostiene che “nessun presidente ha utilizzato in modo altrettanto ampio l’omicidio segreto di singoli individui per raggiungere tali obiettivi”.

Quando Obama arrivò alla presidenza le campagne dei droni erano limitate al Pakistan: 44 attacchi in cinque anni, con 400 morti. Oggi, secondo Miller – gli attacchi sono molte centinaia: 239 solo in Pakistan e 15 nello Yemen, oltre alle numerose azioni in Somalia, dove sono state costruite diverse basi segrete di droni.

L’opinione pubblica internazionale è stata informata delle azioni più spettacolari, per esempio l’uccisione di Bin Laden, di alcuni importanti dirigenti di Al Qaeda e di tre cittadini americani che erano sospettati di avere un ruolo di rilievo nell’organizzazione terroristica. Ma la maggior parte delle azioni resta nei cassetti del Pentagono. La Casa Bianca non rilascia dettagli sul Programma Droni, e non diffonde l’elenco delle persone eliminate. Il programma, avviato da Bill Clinton e ampliato da Bush dopo l’11 settembre, ha subito una drastica accelerazione nell’era Obama anche perché i progressi tecnologici hanno consentito risultati sempre più spettacolari.

La strategia adottata – meno uomini sul campo, più aerei robotizzati in clelo – è un’ennesima conferma del pragmatismo della politica estera del presidente. Se un’azione funziona viene perseguita, senza tante sottigliezze. Esponenti dell’amministrazione Obama, intervistati da Miller, dicono che i droni rappresentano la punta di diamante della politica antiterrorismo della Casa Bianca. Nell’ultimo anno, stando a notizie non smentite pubblicate dal Washington Post, una nuova base di droni segreti è stata costruita nella Penisola Arabica e si è andata ad aggiungere a quelle già esistenti alle Seychelles, in Etiopia, a Djibouti.

L’unico membro dell’amministrazione che ha osato criticare pubblicamente queste scelte è stato Dennis Blair, ex direttore della National Intelligence, licenziato nel 2010. L’opinione pubblica americana, concentrata sui problemi dell’economia, non sembra scandalizzarsi. L’11 settembre è lontano. Da dieci anni i terroristi non colpiscono sul territorio americano. Il pragmatismo di Obama sembra funzionare e i repubblicani faranno in modo che la politica estera resti ai margini della campagna elettorale. Ma il carcere di Guantanamo e la strategia dei droni segreti, per Obama, costituiscono un tallone di Achille che contribuirà a rendere apatico l’elettorato democratico, specie quello più giovane. L’ondata di idealismo sollevata tre anni fa è ormai acqua passata. 

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