Una questione di equilibrio. O forse di riequilibrio. In arrivo con i primi provvedimenti già da lunedì, la riforma delle pensioni del nuovo governo Monti cambierà tutto, o quasi. Per tutti, o quasi. Perché «ci saranno persone che subiranno più di altri gli effetti del passaggio dal retributivo al contributivo», spiega Maurizio Ferrera, ordinario di Teoria e Politiche dello Stato Sociale presso la Statale di Milano. Il punto è semplice: le pensioni, contributi e prestazioni saranno modificati. E, dal momento che la stessa copertura di prima non può più essere garantita, qualcuno si dovrà adattare.
Ma chi? «I più penalizzati saranno i “miracolati” del 1995», cioè coloro che, ai tempi della riforma Dini, avevano maturato almeno 18 anni di contributi. Una grazia: erano il minimo necessario per restare aggrappati al sistema retributivo. Che senza dubbio, è giudicato più generoso. «Loro saranno colpiti. E direi giustamente», sottolinea Ferrera. Per motivi di equità. Finora hanno goduto delle larghe maglie di un sistema benefico. Ora, invece, perderanno almeno il 10% della pensione finale, rispetto al retributivo. Ma, va detto, per loro ci saranno «bastoni, ma anche carote», perché è vero che, a conti fatti, «la penalizzazione sarà tanto più elevata quanto minore è la vicinanza ai quaranta», spiega, «ma potrebbero sempre scegliere di prolungare la loro vita lavorativa. In questo modo», aggiunge, «possono parificare la situazione. Anzi, guadagnarci anche un po’».
Escludendo i lavori usuranti («è equo esentarli») i “miracolati” del 1995 vanno cercati tra i cinquantenni del ceto medio: «dirigenti, professionisti, quadri. Tutte persone che si dedicano a impieghi non manuali», una fascia d’età limitata, forse. Ma che origina fondi di spesa, per le prestazioni delle pensioni, altissimi. «Due o tre miliardi», azzarda il professore.
Il problema è che, «in termini pensionistici, nessuno ne sarà avvantaggiato». Certo, «l’importante è la compensazione. La si potrà avere impiegando bene le risorse liberate dal sistema pensionistico», cioè facendole restare «nell’ambito del mercato del lavoro». E in che modo? «Con nuove tipologie contrattuali, che eliminino il precariato o ne riducano i costi sociali», e poi «sussidi per i disoccupati e famiglie con particolari esigenze di reddito». Insomma, più redistribuzione, senza fare cassa.
È lo stesso parere, in sintesi, che esprime Walter Passerini, esperto di economia ed editorialista per la Stampa. Secondo lui, però, è necessario che, insieme al passaggio al contributivo, vengano approntate delle misure correttive «necessarie». Altrimenti, le persone che saranno colpite saranno di più. Molte di più. Come «i giovani, le donne e i lavoratori sopra i 50 anni che perdono l’impiego».
Per i primi la pensione «è un miraggio», perché rischia di trasformarsi in 1/3 del loro stipendio. E, per giovani si intendono i «ragazzi dal ’78 in poi». Complice e causa anche a mancanza di sufficiente informazione. Le donne, invece «hanno una vita contributiva tormentata». Prima lavorano, poi «hanno un periodo di maternità, poi ancora tornano – se riescono – a lavorare, ma possono avere problemi con i genitori a carico». Insomma, «per loro è più difficile accumulare i 40, o 41 o 42 anni necessari di lavoro». Spostare il limite, renderebbe il tutto più difficile, «forse non nel pubblico impiego». E, infine, i cinquantenni senza lavoro: «una grande risorsa sprecata: non vengono assunti e non avranno un numero sufficiente di contribuzioni».
Tuttavia, continua Passerini, «è giusto aumentare l’età pensionabile». Ed «è giusto anche passare al contributivo». L’importante, però, «è mantenere una soluzione condivisa». E per questo l’apertura ai sindacati, per una riforma che non sia imposta dall’alto è «senz’altro una cosa positiva». Con tutti i ritardi causati dai passati governi, che si sono passati la palla avvelenata di mano in mano, senza osare far nulla. Perché non va bene «limitarsi, tremontianamente, a controllare le uscite dal mondo del lavoro. Si deve anche cancellare le iniquità, e aiutare le fasce più esposte». In un sistema «tenuto in vita da precari e da stranieri, che rischiano, dando tutto ora, di non ritirare niente», le priorità di giustizia sono queste.