S’incazzava come un bufalo il vecchio Clint, quando quella sfacciata di Pauline Kael gli dava del fascista dalle colonne del New Yorker per la sua interpretazione di Callaghan e si sfogava con Don Siegel, regista di quel primo, indimenticabile ispettore. Era il ‘71, praticamente un secolo fa, e «Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo» aprì un fronte dolente in quell’America tormentata, in cui la concezione sbrigativa di un poliziotto come quello portò a concludere, in maniera sin troppo sgangherata e infantile, che ci si trovava di fronte a una semplificazione politica eccitante e troppo pericolosa. Guardare oggi a quelle sollecitazioni così conclusive porterebbe se non altro a sorridere, dando un’occhiata anche distratta agli sceneggiatori di quei Callaghan, dove ritroviamo un autentico monumento come Terrence Malick che lavorò a «Scorpio» e poi il Cimino del «Cacciatore» che si occupò della «44 Magnum», sorella maggiore di quella 357 usata da Gianluca Cassieri per compiere la strage dei senegalesi a Firenze.
Volevamo arrivare qui, alla strage muta e terribile di pochi giorni fa, non già perché lo imponesse la storia del cinema con i suoi inevitabili rimandi – ogni gesto artistico comincia e finisce con la sua creazione – ma perché altri ci hanno portato (giornalisticamente) per mano su questo sentiero impervio, dove la fantasia del racconto cinematografico viene utilizzata da innesco per una domanda fondamentale: dove può generarsi la pulsione a uccidere?, concludendo che uno degli elementi cardine, uno dei più suggestivi, starebbe in quella spoglia libreria del nazista assassino e suicida dove stavano in povera mostra tre film «significativi»: appunto il Callaghan del caso Scorpio, autentico capolavoro del genere, poi «Un giorno di ordinaria follia», discreta pellicola con un Douglas che da civilissimo borghese finisce a dare fuori di testa, e infine Dobermann, per dirla alla ragionier Ugo «una cagata pazzesca», con Cassel e la Bellucci (fu il set fatale dell’incontro tra i due).
«I tre film nella casa dell’assassino», strilla il Corriere della Sera in prima pagina, come elemento distintivo e dirimente di un comportamento criminale, «I tre film violenti nella casa dell’assassino», rinforza il Corriere.it con l’aggettivo giusto al momento giusto. Perché di fronte allo scempio di una strage, noi poveri lettori, noi poveri esseri umani, siamo sfibrati d’ogni sensibilità, privi totalmente di ogni elemento di conoscenza psicanalitica, ed è proprio nel momento più alto della nostra anoressia conoscitiva che il giornale tappa il buco con quei simboli a effetto dirompente: aveva quella filmografia, era figlio di quella filmografia, si pasceva di quella filmografia. Adesso tutto comincia a essere un po’ più chiaro, cari lettori, si delineano con nettezza i percorsi di un animo perduto e delirante, che riparandosi dietro una figura ingombrante e straordinaria come Callaghan trova buoni motivi per seccare dei poveri ragazzi indifesi (Harry Callaghan sparava a poveri ragazzi indifesi?).
Volendolo, due di quei tre titoli sono nelle librerie di ciascuno di noi. E se passa uno qualunque dei Callaghan di questa terra intorno alle undici di sera su Retequattro, una mezz’ora è ancora possibile cibarsene, dopo averli visti – interi – almeno quattro o cinque volte. Il contrappasso più crudele per l’improvvida Pauline Kael e per i suoi tardi epigoni del Corriere della Sera è stata propria la carriera incredibile di Clint Eastwood, che ha piegato ogni resistenza e ogni scetticismo proprio sulla sensibilità di un animo profondo e sui suoi accenti di vero libertario. Per un fascista, un buon fascista come lui, davvero niente male.
Ps. Scriviamo queste righe con il cuore intriso di malinconia. Dai giornali di questa mattina, apprendiamo che l’immenso Clint avrebbe ceduto all’idea (naturalmente malsana) di partecipare insieme alla sua famiglia a un reality che indagherà la loro intimità. Il vecchio, cinico, Callaghan non avrebbe apprezzato.