Saremmo tutti più sereni in un mondo senza apostrofi

Saremmo tutti più sereni in un mondo senza apostrofi

Mi capita sempre più spesso di avere un brutto rapporto con l’apostrofo. L’altro giorno, scorgendo una pubblicità che conteneva l’espressione “un’amicizia”, mi chiedevo cosa sarebbe cambiato se in luogo di quella virgoletta tra l’articolo e il sostantivo, ci fosse stato il nulla – per esempio: un amicizia – o ancor meglio un’unica parola: unamicizia. L’avremmo letta con lo stesso suono e con il medesimo significato? Credo proprio di sì. Nel frattempo, mi accorgo che per spiegarvi il primo concetto di questo articolo, sto già utilizzando un sacco di parole con l’apostrofo: l’apostrofo stesso (appunto), l’altro, un’unica, l’avremmo, l’articolo e un’amicizia. Insomma, non se ne esce.  

Ci sono cose di cui francamente possiamo fare a meno, sovrastrutture del pensiero che affollano la nostra mente, ma che onestamente non meritano un posto d’onore. L’apostrofo mi pare una di queste. L’infida virgolina si attribuisce persino un compito di selezione genetica, quando decide – addirittura – di determinare il sesso di una parola o di un’azione compiuta. Un allarme, che è maschio, andrà senza apostrofo, un’esperienza, che è femmina, si scrive con. Forse perché la femmina desidera, più romanticamente, un apostrofo nel cielo? Ma cosa accadrebbe di così scandaloso se per convenzione unanimemente riconosciuta, trovassimo un accordo per eliminarlo, l’apostrofo? In fondo, “un esperienza” rimarebbe sempre e solo un esperienza, e non muterebbe il corso delle nostre piccole storie.  

E invece accade che sbagliare l’apostrofo, femminilizzando il maschio per esempio, produca addirittura una discriminazione sociale, quasi una divisione per censo, con i bravi-applicatori della regola (sciocca) che guardano dall’alto in basso i semplificatori “ignoranti”. Ma è lecito soffrire per un apostrofo, sentirsi giudicati solo perché ne si ha una dimestichezza più modesta?

Ho scritto questi pensierini sparsi qualche settimana fa, e poi li ho ricacciati giudiziosamente nel cassetto. Mi sembravano autocertificazione estetico-psicanalitica, roba da convegno dei cinque, esercizio instancabile di una attitudine onanista, in una memorabile espressione, appartenuta totalmente al grande Gianni Brera, purissima “masturbatio grillorum”.

Certo non immaginavo, non potevo immaginare, che le mie modeste riflessioncine sull’apostrofo potessero tornare d’attualità tutto d’un botto, e che botto trattandosi del Roberto Saviano di Gomorra, il quale in un tweet assassino ha ciccato proprio un apostrofo, uno dei più infidi, uno che non c’è ma che tutti vorremmo ci fosse, tanto sarebbe comodo mettercelo. È l’apostrofo tra “qual” ed “è”, che non si capisce quale scienziato del pensiero debole abbia deciso grammaticamente di abolire, producendo una grana epocale tra gli incerti del mestiere che ogni volta traballano di fronte a cotanta espressione.

Com’è (qui ci va l’apostrofo, vero? E perché, poi?), come non è, sull’errorino di Saviano il Corriere ci ha montato una pagina a firma Severgnini, che quel giorno evidentemente non aveva tanto da fare, e pure noi de Linkiesta lo abbiamo un po’ sfruculiato, il Roberto, con un corsivo prendingiro che nella vita ci sta, anche se sei un eroe. Mal ce ne incolse, molti lettori ci hanno bastonato, facendoci rosiconi sino all’invidia. Ecco, se una cosa manca, qui a Linkiesta, è il rosicamento. Su niente e nessuno.

Io, sul momento, stavo decisamente con Saviano. Chi se ne fotte dell’apostrofo, ho pensato, anche se chi mi conosce sa della mia attitudine a rompere gli zebedei a chi li sbaglia. Mi sono detto: uno come lui terrà il punto con fierezza, dirà che ha sbagliato «ma chi non sbaglia nella vita», cercherà consenso laddove gli imbecilli dalla penna rossa puntano il dito e via così. Penso sempre che un errore vada ammesso, con la massima semplicità e serenità.

Invece, è intervenuto lo scrittore che è in lui, e gli ha rovinato tutto. Gli ha consigliato di scrivere – come nobile ombrello protettivo – che anche Pirandello e non so chi scrivevano così e che grazie a questi padri eccellenti, dunque, lui avrebbe continuato a scrivere «qual’è» con l’apostrofo. Mi ricorda tanto noi giornalisti quando ci bocciano all’esame e tiriamo fuori che avevano bocciato anche Moravia (credo). Una pirlata gigantesca.

Ps. E comunque, sono ancora del parere nonostante Saviano: ’sto apostrofo ha stancato…  

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