VENEZIA – L’Italia senza manifattura non ha futuro. Lo dicono i numeri: il manifatturiero vale il 16% del nostro Pil. E proprio alla manifattura Linkiesta sta dedicando un ciclo di inchieste. Anche Romano Prodi aveva sottolineato sul blog Technology Review quanto fosse importante per l’Italia.
Manifattura deriva dal latino manu facere, fare con la mano. E in effetti il lavoro manuale è una delle vecchie glorie di questo Paese. Nelle officine dei maestri vetrai di Murano, così come negli stabilimenti industriali del Nordovest (o del Sud), le mani servono. E servono competenze e abilità specifiche. Eppure la formazione tecnica, indispensabile per fare dei buoni tecnici e dei buoni artigiani (oltre che dei buoni imprenditori), in Italia sembra aver perso centralità. Lo sostengono in molti, incluso Enrico Amadei, direttore Divisione Economica della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa. Linkiesta lo ha incontrato a Venezia in occasione degli ultimi Nobels Colloquia.
Amadei è un uomo pragmatico, che dice le cose come stanno. A suo parere è essenziale «riorientare un sistema produttivo che è uno dei più grandi sistemi manifatturieri del mondo, secondo solo alla Germania in Europa. Noi dobbiamo individuare ricette che tengano conto delle grandi manualità, delle grandi competenze, della capacità di essere di essere concorrenziali con i grandi Paesi emergenti». E bisogna anche capire il valore dei lavoratori immigrati. È vero, le loro competenze non sempre sono facilmente spendibili sul mercato del lavoro. Ma si deve «tener conto delle grandi opportunità che l’immigrazione ci offre dal punto di vista produttivo. Non voglio far finta di non sapere, e dovremmo saperlo tutti, che in edilizia oggi quasi il 30% della manodopera non è italiano».
Un libro uscito qualche mese fa, Futuro artigiano, dell’economista Stefano Micelli, ha riscosso grande successo e interesse. Il futuro dell’Italia è un futuro artigiano?
Credo che sia un futuro di lavoro. Un futuro di lavoro, e di sviluppo del Made in Italy. E dentro a questo ci sono le grandi capacità artigianali. Penso che sarebbe un errore ridurre tutto alla grande impresa, come alcune teorie vorrebbero. Sarebbe però un errore identico individuare esclusivamente nelle capacità artigianali, che pure gli italiani hanno, e hanno da secoli, le nostre prospettive di sviluppo. Il libro di Micelli ha individuato alcune storie secondo me molto calzanti: storie che effettivamente rappresentano la capacità italiana di trasformare una grande manualità, una grande idea, in impresa. Capacità che si collega al Rinascimento, a quegli artigiani che grazie alle loro competenze diventavano artisti.
Dai suoi ragionamenti si desume la necessità di riscoprire il valore della scuola tecnica.
Non c’è dubbio. Noi abbiamo la necessità di tornare ad avere una leva di operatori capaci di fare impresa, e capaci di lavorare nel tecnico. Ciò, purtroppo, lo abbiamo perso nel corso degli anni. Avevamo delle grandi scuole tecniche negli anni Cinquanta e Sessanta, aldilà di tutto quello che si può dire di quel periodo. Certo, è necessario coltivare la cultura umanistica, che ad esempio può essere utile per il turismo, per portare sviluppo in Italia: infatti la cultura italiana non è delocalizzabile. Ma d’altra parte dobbiamo essere in grado di competere sui mercati mondiali con la nostra capacità produttiva, fatta dalle famose quattro A: l’automazione meccanica, l’abbigliamento, l’arredamento e l’alimentazione. I pilastri della nostra capacità di esportare.
Interessanti a questo riguardo sono il modello svizzero e quello tedesco. Come ha spiegato a Linkiesta il professor Klaus Zimmermann, l’apprendistato è una delle forze dell’economia tedesca. E in Svizzera il sistema scolastico è molto orientato verso il mondo del lavoro e dell’impresa
Abbiamo un sistema scolastico che oggi non è più orientato in questa direzione. E riorientarlo costa cifre molto elevate. Non dobbiamo mai dimenticare che la Germania, la Svizzera, hanno sistemi scolastici che sono stati avviati molti anni fa, e oggi beneficiano di un risultato. L’Italia deve riorientare il suo sistema scolastico, e questo è difficile. Voglio dire un’altra cosa: i nostri enti pubblici hanno finanziato formazione in aula, ma non hanno finanziato formazione tecnica. Tutti si sono attrezzati per offrire i corsi di inglese e computer richiesti dall’Europa, ma per imparare a usare il tornio ci vuole il tornio. Bisogna tornare all’impresa, perché l’evoluzione tecnologica è tale che non esiste scuola in grado di rimanere aggiornata sull’evoluzione tecnologica.
In molti c’è un atteggiamento sprezzante nei confronti del lavoro manuale, non trova ?
Oggi il lavoro manuale viene visto come un ripiego, e non come una modalità di affermazione professionale. Invece il lavoro manuale o l’organizzazione del lavoro manuale, che con le moderne tecnologie sono cambiati moltissimo, sono una delle possibilità di affermazione professionale. Devono esserlo. Perché abbiamo una classe di piccoli imprenditori che nei prossimi dieci anni arriverà all’età del ricambio.
Invecchiano, come tutti.
Sì, e non hanno il ricambio. Nel passato tale ricambio è stato costituito da operai e tecnici che erano cresciuti nelle aziende, e che magari ne erano usciti per farne delle altre. Oggi non abbiamo quel ricambio, e questo può comportare un rischio molto elevato.
Qual è la priorità dunque?
Dobbiamo riformare l’istruzione. Dobbiamo ripartire dall’istruzione, anche da quella tecnica, quindi. Dobbiamo avere, a mio parere, alcuni spazi per la formazione preparatoria ai livelli intermedi dell’impresa. La Bocconi fa grandi manager, però abbiamo bisogno anche dei tecnici.
Riorientare i giovani e le famiglie, dunque.
Certo.