Dopo un anno, il nodo democrazia e sviluppo per la Primavera araba

Dopo un anno, il nodo democrazia e sviluppo per la Primavera araba

A portare nel 2011 il mondo arabo nelle cronache occidentali è stato, come si sa, il vento dalle “primavere”, che ha soffiato in più regioni. Se in Tunisia e in Egitto ha portato alla rapida caduta del regime, in Libia, per far crollare Gheddafi c’è voluto l’aiuto dell’intervento militare internazionale (peraltro durato più del previsto). In Siria, gli scontri e le repressioni continuano ancora. In Yemen e in Bahrein, dopo proteste molto accese, la situazione appare in stallo. Sono cose che sanno tutti. Ma quali sono state le cause che hanno determinato le “primavere”? È poco chiaro. Perché ora, poi? Perché in alcuni paesi sì e in altri no? E soprattutto, perché nessuno è riuscito a prevederlo? Tutte domande complesse, che si possono riassumere in una sola: cosa è successo, allora, in quella regione?

La risposta la cercano Rony Hamaui e Luigi Ruggerone ne Il Mediterraneo degli Altri, Le rivolte arabe fra sviluppo e democrazia, edito da Egea, casa editrice dell’Università Bocconi di Milano. Il volume, forse il primo finora, parte da un taglio chiaro della questione: l’analisi socio-economica. Da qui arriva ad abbracciarlo nella sua interezza. Definendo l’area di riferimento (quali sono i paesi arabi, del resto?), la sua situazione economica, la produttività, i problemi (e le fortune) derivanti dal petrolio e la labilità delle istituzioni democratiche, gli autori mettono in luce le questioni più rilevanti.

Così, attraverso analisi e grafici, ricordano che il tasso di crescita della regione è molto alto (non altissimo), ma è bloccato dal concorrente tasso di crescita demografico. E che, soprattutto, il Pil pro capite è bassissimo, anche nei paesi più ricchi, cioè gli esportatori di petrolio. In tutto questo, spicca il ritardo, clamoroso, nell’istituzione di strutture democratiche, ancora più sconcertante perché rapportato ad altre aree del mondo, che nello stesso tempo hanno visto ritmi di sviluppo più veloci. Ma a cosa è dovuto? Per capirlo, serve sgombrare lo sguardo da innumerevoli preconcetti sul mondo arabo.

«All’osservatore superficiale i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente appaiono una regione estremamente omogenea»: hanno «una religione fortemente maggioritaria, quella musulmana; una sola lingua semitica, l’arabo; una geografia relativamente omogenea, compresa tra il 35° e il 15° di latitudine» e poi «una popolazione, quella araba, di origine semitica» e «una cultura modellata da oltre quattordici secoli». Sembra così, ma non lo è. Le differenze sono enormi: non è vero che la lingua è comune (spesso non si capiscono), e nemmeno la cultura. Perlopiù, i paesi sono divisi in tribù e clan. Anche la religione è una cosa complicata: oltre a dividersi in sciiti e sunniti, l’islam conosce una frammentazione di scuole opposte e rivali. Dal punto di vista economico, poi, la divisione principale corre tra produttori e non produttori di petrolio. E, in questo caso, il tutto si intreccia con la situazione sociale e istituzionale. Nella complessità del mondo arabo, la guida di Hamaui e Ruggerone è illuminante.

Se, come si vede, il petrolio è stato una fortuna per l’economia di molti dei paesi arabi, al tempo stesso è stato una disgrazia per i diritti sociali: i proventi vengono utilizzati per narcotizzare le rivendicazioni democratiche. È il caso dello stato rentier. Non per niente nel 2011 l’Arabia Saudita ha aumentato le spese interne per tenere le redini della popolazione. Anche l’Islam viene messo sotto esame: può essere la religione a frenare lo sviluppo o no? Gli autori, su una questione così delicata, preferiscono non sbilanciarsi. Anche se, in conclusione, ritengono che siano più le condizioni storiche e geografiche a essere decisive.

Il tutto si riassume nell’azione dell’Europa e dell’Italia in particolare. Che fare? Le ipotesi sono diverse, e i problemi ampi. Non è solo la difficoltà di una partnership economica e commerciale, ma anche la gestione dei flussi migratori e dell’ingresso. E il problema della realpolitik, che porta a preferire un regime rispetto a un altro, una struttura sociale rispetto all’altra. Questione di priorità. Hamaui e Ruggerone non danno risposte, ma portano proprio sul punto in cui, per scegliere, si deve decidere da soli.  

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