L’ultimo si chiamava Seydou Diarrassouba. Anche lui era un chav, slang dispregiativo inglese che indica i tamarri, i bulli di periferia. Aveva diciott’anni quando, alle 13.45 del giorno di Santo Stefano, è stato assassinato con una coltellata al cuore in Oxford Street, trafficata e centralissima arteria londinese, a pochi passi dalla vetrina di un Foot Locker. Seydou abitava a Mitcham, nel sud della città. Era soprannominato “Nutz” ed era uno degli ABM (“All ‘Bout Money”), una delle decine e decine di gang che occupano le strade dei quartieri periferici di Londra. Il suo assassino aveva la sua stessa età, veniva dal suo stesso quartiere – ma faceva parte della gang rivale, gli 031 bloods.
A Londra la violenza giovanile sta diventando una piaga sociale. Gli adolescenti che vivono nelle zone più povere – Hackney, Lewisham, Lambeth, Southwark, Croydon, Kilburn, Cricklewood, Hammersmith e Tottenham, ma non solo – crescono più nelle strade che nelle scuole. Spesso, hanno entrambi i genitori disoccupati e pochissime opportunità di risalire la china della società. Così, già a dodici anni, entrano nelle gang, l’unica forma di aggregazione che gli permette, all’interno del quartiere, di relazionarsi e di stringere amicizie. E, ovviamente, di procurarsi inimicizie.
Molto spesso sono figli di immigrati, nella maggior parte dei casi sono di origine africana, anche se le caratteristiche etniche non sono una costante. Il nome di riconoscimento di queste gang, di solito, non è altro che il codice postale del distretto in cui i ragazzi vivono. C’è la E5 a Hackney, l’SW2 a Brixton, l’N17 a Tottenham, la B6 a Birmingham. Nel proprio quartiere di appartenenza, le gang si contendono le zone di influenza, commettono rapine e furti, spacciano. E ogni tanto ricorrono alla violenza. Le stime su quanti effettivamente siano gli affiliati alle gang sono molto discusse. Secondo alcune ricerche sono circa duemila, altre invece alzano l’asticella molto più in alto, fino a contarne quasi 20mila.
Poche ore dopo l’assassinio di Seydou, un altro ragazzo è stato accoltellato. È successo sempre ad Oxford Street, sempre in pieno giorno. Stavolta è andata meglio: il ragazzo, 21 anni, è stato trasportato in ospedale “soltanto” con una ferita alla coscia. La polizia ha fermato una decina di ragazzi, quasi ognuno di loro aveva addosso un coltello. È la knife violence che infesta la capitale londinese.
Prima di Seydou, erano stati Negus (15 anni), Wing (18), Ezekiel (17), Kasey (15), Stephen (21) a morire in seguito ad attacchi di gang rivali. Undici dallo scorso gennaio, solo a Londra. Ma il fenomeno ha trovato emulatori anche nelle altre grandi cities inglesi. Gli ultimi numeri, resi pubblici dal governo inglese a inizio 2011, parlano di 120 teenager morti a causa della violenza giovanile, e oltre 16.400 ricoverati negli ospedali di tutto il Paese tra il 2009 ed il 2010, di cui 1900 di loro feriti a coltellate.
Il primo passo da fare, secondo molti, è ammettere l’esistenza del problema. «Qui nessuno ammette che abbiamo un problema di gang e che dobbiamo fare qualcosa» aveva scritto Bansi Kara, giornalista e insegnante del quartiere “a rischio” di Hackney, sull’Huffington Post, pochi giorno dopo l’omicidio in Oxford street. «Questi ragazzi percepiscono un tale senso di immunità da arrivare a fronteggiarsi in pieno giorno, davanti a centinaia di testimoni. La mia domanda, come insegnante che non vuole svegliarsi e leggere una notizia di uno dei suoi ragazzi ucciso a coltellate in un’aggressione, è questa: quale vittima spingerà finalmente le nostre autorità ad assumere un punto di vista più schietto e diretto di ciò che sta accadendo a Londra?».
La risposta alle preoccupazioni di Kara è arrivata proprio in questi giorni. Scotland Yard, la polizia londinese, ha infatti comunicato di essere al lavoro su di un nuovo imponente piano studiato apposta per fronteggiare l’escalation criminale causata dalle gang. Il programma si avvarrà dell’azione operativa di Trident, l’unità speciale preposta ad indagare i casi di omicidio interni alla comunità nera. Un portavoce della Met, la metropolitan police londinese, ha dichiarato: «Stiamo elaborando nuove strategie per risolvere il problema. Attueremo azioni dirette contro le gang, migliorando la coordinazione e la distribuzione dei compiti, e avvieremo programmi sociali in grado di convincere i ragazzi a stare lontano dalla criminalità, permettendo loro di contribuire in modo positivo alla comunità cittadina».
Sono passati meno di sei mesi da quelle notti agostane in cui, in seguito all’omicidio del ventinovenne spacciatore Mark Duggan da parte della polizia, una serie di violente rivolte ha infuocato la città provocando morti e danni per centinaia di milioni. Anche in quel caso molti dei riots, soprattutto i più violenti, erano stati attuati dalle gang. Molti dei colpevoli, però, resteranno impuniti: pochi giorni fa, il procuratore David Robinson, che coordina le indagini, ha detto che «i casi in esame sono talmente tanti che, ancora oggi, non si intravede la fine. Alcune situazioni poi sono così complicate, che difficilmente riusciremo ad andare a fondo dei crimini commessi».
Il dato certo è che, ancora una volta, la capitale inglese è alle prese con una difficile situazione sociale, fermentata per anni nelle sue zone periferiche e ignorata – o almeno sottovalutata – da parte delle autorità cittadine. Oggi però il problema si è affacciato sulle eleganti vetrine di Oxford Street e, nell’anno dei Giochi Olimpici, risolverlo è diventato una priorità assoluta. Ne va della credibilità della capitale inglese. Perché a fine luglio, quando le televisioni di tutto il mondo punteranno le loro telecamere sulla city, sarà importante riuscire a mostrare solo il volto bello di Londra. E, tra un salto in lungo e una partita di pallavolo, per la violenza dei chavs non deve esserci posto.
*le fotografie sono parte di un progetto realizzato da Josh Cole, fotografo e videomaker inglese (sito ufficiale)