Le previsioni sul futuro della Libia oscillano di giorno in giorno. Se ad ogni annuncio del Consiglio Nazionale Transitorio corrisponde unʼondata di ottimismo (il varo del nuovo governo, la promessa di elezioni per lʼAssemblea Costituente, il ritorno alla funzionalità di gran parte dei giacimenti petroliferi, ecc), nello stesso modo, al protrarsi degli scontri tra fazioni o tra lealisti del vecchio regime e tuwar (gli anti Gheddafi) subentrano pessimismo e paure. Gli ultimi scontri, con il ritorno a Bani Walid dei filo-gheddafiani capaci di issare la bandiera verde della Jamahiriya nel centro del Paese, sconcertano lʼOccidente: la guerra non era finita?
Il Cnt, nonostante le raccomandazioni (teoriche) occidentali ha già commesso due errori nella gestione del post-Gheddafi. «Evitare una giustizia sommaria», che è alla base di qualsiasi nuova convivenza pacifica. I massimi leader del regime e gli indiziati di gravi crimini dovevano essere denunciati, non detenuti senza aver visto alcun processo (come sta avvenendo per Saif al Islam Gheddafi). Invece, purtroppo, gli episodi di violenza indiscriminata, anche da parte dei ribelli, non sono stati pochi.
“Garantire sicurezza e ordine pubblico” è un precetto che dovrebbe concordare con il primo in questa fase delicata di “state building”. Ma anche qui le cose lasciano molto a desiderare. Non esiste ancora un unico esercito nazionale. Il risultato è il perdurare delle bande armate nel Paese. In Libia esistono circa 130 clan. Se la caratterizzazione clanico-tribale non deve essere esasperata (oggi il 15-20% della popolazione, a causa della progressiva urbanizzazione degli ultimi decenni, non si riconosce in alcuna tribù) va anche tenuto presente che in realtà questa peculiarità sta implicando il sorgere di svariati micro-gruppi di potere con un controllo territoriale circoscritto, ma che stanno rendendo molto complessa la gestione organica del Paese.
Questi gruppi, costituitisi attorno alle città, hanno preso parte alla lotta contro il regime e sembrano essere poco inclini al riconoscimento dellʼautorità centrale senza aver in qualche misura negoziato la propria pacifica partecipazione alla gestione del potere nel Paese. Sono in concorrenza fra di loro e vogliono avere garanzie prima di deporre le armi o indossare una divisa unica. La situazione del sud della Libia inoltre appare ancor più complessa e difficile: una intera area desertica che sembra essere diventata terra di nessuno, fuori dal controllo delle nuove forze governative, dove le tribù hanno un ruolo importante. Qui il traffico dʼarmi potrebbe divenire una fonte di sostentamento essenziale andando a facilitare la destabilizzazione di alcuni paesi africani.
Un ulteriore problema è costituito dalla legittimità del governo e delle autorità del Cnt: scarsa legittimità interna compensata da una forte legittimazione esterna. Molti paesi europei, gli Stati Uniti e la Turchia hanno compiuto visite ufficiali e dato supporto a Jalil e compagni, in qualche modo accreditandoli del ruolo di statisti. Questi ultimi però sono sempre più in difficoltà, costretti tra le esigenze dei loro protettori internazionali e le svariate richieste di partecipazione alla gestione del potere delle fazioni locali e politiche del Paese. I membri del Ctn sono pienamente consapevoli di dover dare un segnale diverso rispetto al passato, non possono assomigliare a Gheddafi. Devono dare segni di discontinuità: sia allʼinterno del Paese, dove la richiesta di islamizzazione della società si fa sempre più assillante, sia allʼesterno, nelle relazioni con gli altri paesi, Italia in testa. Da qui derivano tutta una serie di incertezze, a cominciare dallʼaver rinnovato sottovoce, e con una dichiarazione molto snella, il rapporto con lʼItalia. La popolazione libica si aspetta probabilmente una ridistribuzione della rendita più equa, ma la struttura (inesistente) dello Stato non aiuta, tutto è da costruire ex-novo, in poco tempo e nel caos più completo. Per le nuove autorità libiche questa è una vera corsa contro il tempo.
Le elezioni della Costituente di giugno appaiono troppo lontane. La Libia non ha alcuna tradizione di partecipazione democratica ad elezioni. Lʼunica elezione parzialmente libera fu tenuta nel febbraio del 1952. Nellʼambito del dibattito politico, dellʼelaborazione di piattaforme politiche, della creazione di partiti, nella realizzazione di una cultura di governo improntata su valori liberali, la Libia non ha esperienza. Tuttavia, per non perdere il momento sarebbe opportuno che si desse il prima possibile una valvola di sfogo alle esigenze di libertà dʼespressione e identità dei libici, accompagnandole dʼaltra parte ad un processo di disarmo di queste fazioni. Un nuovo processo politico è stato avviato ed è utile che – seppur imperfetto – prenda forma il prima possibile. Forse non sarà sufficiente per evitare lʼinstabilità perenne della nazione, ma – scartata ogni ipotesi di intervento internazionale – non esiste altra possibilità.
* ricercatore all’Istituto per gli studi di politica internazionale e autore del libro «L’Italia e l’ascesa di Gheddafi»