Non ci sono più i debiti esteri di una volta e nemmeno gli Stati che per esigerli non esitano a spedire navi da guerra dall’altra parte del globo. Si chiamava politica delle cannoniere e uno degli episodi più clamorosi avviene nel dicembre 1902 in Venezuela e ha per protagonisti Germania, Gran Bretagna e Italia. Anche se, nel caso italiano, sarebbe forse più corretto parlare di comprimario, più che di protagonista.
Le cose sono andate più o meno in questo modo: alla fine del XIX secolo diversi Paesi europei avevano parecchi interessi nel Paese caraibico. La Krupp, per esempio, era impegnata nella società ferroviaria venezuelana e si trattava del più importante investimento tedesco dell’intero Sudamerica. La Gran Bretagna vantava un credito di svariate decine di milioni di dollari, mentre l’Italia, più modestamente, aveva firmato un accordo con Caracas in base al quale di impegnava a partecipare al dissodamento delle terre incolte. In sostanza mandava emigrati e i venezuelani pagavano perché andassero da loro anziché in altri Paesi. Ma la situazione politica non era delle più stabili e i pagamenti delle varie rate piuttosto rilassati.
Quando poi, capitanando la sua brava rivoluzione, prende il potere Cipriano Castro (in zona caraibica “un cognome, un programma”, evidentemente), nell’ottobre del 1899, i pagamenti delle rate dei debiti contratti cessano del tutto. Ma tedeschi e britannici non sono tipini da lasciar perdere tanto facilmente e incalzano Castro. Berlino, al momento più amichevole, invita Caracas a sottomettersi a un arbitrato nazionale. Londra, invece, ben più piccata, invia la bellezza di diciassette note diplomatiche in quattro mesi, in pratica una alla settimana, delle quali il presidente venezuelano si fa un baffo e non risponde nemmeno a una. Castro si fa forte della dottrina Monroe e ritiene che gli Stati Uniti siano pronti a impedire qualsiasi intervento militare europeo. In realtà Washington vuole impedire che gli europei si acchiappino ulteriori territori del continente americano, ma se mandano una manciata di cannoniere a tutela dei loro interessi, lo zio Sam può anche sovranamente far finta di niente. Il presidente venezuelano forse non si rende neanche conto che sta annodando il cappio con cui gli europei intendono impiccarlo, ma tant’è.
Nel novembre 1902 l’imperatore Guglielmo di Germania e il re Edoardo VII d’Inghilterra si incontrano a Sandringham House e firmano il cosiddetto “accordo delle corazzate”. Il 7 dicembre 1902 Berlino e Londra lanciano un ultimatum che Caracas respinge. Quattro giorni dopo, l’11, anche Roma manda un ultimatum, e pure questo viene respinto. Qualche giorno dopo comincia il blocco navale; le unità italiane si uniscono a quelle britanniche e tedesche il 16 dicembre.
La partecipazione italiana pare essere più subita che accettata da tedeschi e britannici e Roma sembra sempre andare a rimorchio delle decisioni di Londra e Berlino. Anche gli articoli della Stampa che si occupano della vicenda appaiono molto più attenti alle iniziative militari delle due potenze maggiori, rispetto a quelle italiane. Comunque l’escalation è chiara. «L’Italia chiede tre milioni di lire al governo del Venezuela», scrive La Stampa del 15 dicembre 1902. Il giorno dopo il ministro degli Esteri italiano, Giulio Prinetti, assume una posizione durissima. Parla di «offese ai cittadini», di «violazioni» vascelli mercantili, di «mancati pagamenti» protratti per anni dei crediti contratti da Caracas, di inadempienza nei contratti governativi, di «danni alle proprietà di cittadini italiani durante le insurrezioni» e così via. Insomma una lista lunghissima di lamentele, riguardo alle quali l’Italia si attende «giuste compensazioni».
Il quotidiano romano La Tribuna loda la durezza di Prinetti, e afferma che la presa di posizione del ministro degli Esteri «tende a rassicurare, con la colonia del Venezuela, tutte le nostre colonie, quasi sempre lasciate in colpevole abbandono». E così La Stampa del 18 dicembre titola: «La rottura delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e il Venezuela. L’Italia si unisce all’Inghilterra e alla Germania». E più sotto precisa che Roma ha ricevuto la benedizione di Washington: «L’attitudine dell’Italia è cordialmente approvata dal dipartimento di Stato».
Le operazioni militari non sono granché complicate per gli europei. In un paio di giorni tutte le navi della marina militare venezuelana vengono catturate. Castro (che pochi anni dopo avrebbe perso il potere mentre si trovava lontano dal Paese per curarsi dai problemi urologici che lo affliggevano) si vendica arrestando 200 cittadini tedeschi e britannici residenti a Caracas. Navi britanniche, assistite da un’unità tedesca, bombardano Puerto Cabello.
A questo punto, però, intervengono gli americani proponendo un arbitrato internazionale. I britannici ci stanno, i tedeschi no (la posizione italiana è ininfluente). In gennaio due navi del Kaiser entrano nella laguna di Maracaibo e distruggono Fort San Carlos, ammazzando 25 persone. Washington fa la voce grossa con Berlino imponendogli di accettare il negoziato. Anzi, al tempo è opinione comune che il presidente Usa, Theodore Roosvelt (un ex militare, è bene ricordarlo) abbia minacciato l’imperatore tedesco di scaraventargli contro le navi a stelle e strisce. Non ci sono riscontri storici che questo sia davvero avvenuto, ma alcune unità Usa si schierano a ridosso delle coste venezuelane, e non per partecipare al blocco.
L’accordo viene siglato nel febbraio 1903. Il debito estero viene ridotto e Caracas si impegna a pagarlo devolvendo alle potenze coinvolte un terzo degli introiti doganali dei due principali porti del Paese, anche se ci saranno ulteriori strascichi negoziali. La conseguenza più importante di questa crisi consiste nel corollario di Roosvelt alla dottrina Monroe, in base al quale gli Usa si impegnano a intervenire per stabilizzare la situazione economica dei piccoli Paesi centro e sudamericani qualora non siano in grado di ripagare i debiti, in modo da evitare che a farlo siano gli europei.
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