Saluti da Saturno, il piano bar del futuro suonato con gli strumenti dimenticati

Saluti da Saturno, il piano bar del futuro suonato con gli strumenti dimenticati

Un passato da batterista nelle orchestrine di paese, poi il jazz, infine una carriera come (poli)strumentista al fianco di Vinicio Capossela. Mirco Mariani è un personaggio particolare e affascinante, almeno quanto gli strumenti che suona nei suoi dischi: l’optigan, l’ondioline, il mellotron, la celesta e molti altri.

Qualche giorno fa è uscito il secondo disco della sua band, i Saluti da Saturno, dove Mariani, oltre a suonare, scrive testi e musiche. Al suo fianco ci sono Marcello Monduzzi (chitarra, glockenspiel, toy piano, carillon) e Bruno Orioli (chitarra e voce). L’album si intitola Valdazze, con riferimento alla località in provincia di Arezzo dove, nel 1964, il Cavalier Silvio Giorgetti cominciò a costruire quella che in teoria sarebbe dovuta diventare una nota attrazione turistica: Il villaggio del cantante.

La scommessa di Giorgetti era di riuscire a convincere cantanti famosi ad acquistare a Valdazze la propria abitazione, in modo da attirare i turisti. L’inizio fu promettente: i Giganti, Bobby Solo, Gianni Meccia e Jimmy Fontana finanziarono l’idea. Poco dopo, però, il progetto naufragò. E oggi a Valdazze rimangono soltanto alcune case, quattro abitanti, una piccola chiesetta e un ristorante.

Di Valdazze restano anche le scritte lungo le strade che circondano la località, fatte con la vernice bianca dallo stesso Cav. Giorgetti. E resta soprattutto un certo immaginario, retrò e sognante, che Mariani ha voluto racchiudere nel suo disco, in cui racconta di un luogo nato per “accogliere i ricercatori di armonie incantate e i difensori delle melodie eterne”.

«In un certo senso, Valdazze è un ritorno alle origini. Le mie origini: la Romagna, le balere, il liscio. Ho cominciato da lì, dai piano bar e dalle orchestrine di paese».

Dalle balere dei paesini romagnoli ai palchi di tutta Italia, prima con Capossela e poi con i Saluti da Saturno. Che cosa resta del tuo passato in quello che fai oggi?
Di quel momento della mia vita porterò sempre dentro un’istantanea: il divertimento della gente. Che poi è quello che cerco di realizzare ancora oggi con la mia musica. Voglio creare un coinvolgimento totale tra il pubblico e il musicista, non mi piacciono quegli artisti che ai concerti creano una distanza con le persone. Noi ci mescoliamo con il pubblico, spesso scendiamo dal palco e ci mettiamo a ballare tra la gente. Ora suono quello che sento più vicino alla mia anima. Con una certa dose d’imprevedibilità e d’improvvisazione. Adoro sorprendermi mentre sono sul palco.

Sei un ex batterista, ormai. Quando hai cominciato a sentire l’esigenza di misurarti con un linguaggio musicale diverso?
Ho smesso con la batteria in maniera drastica. Da un giorno all’altro. Semplicemente, ho sentito che quello strumento non mi apparteneva più. Nel frattempo avevo già cominciato la mia ricerca tra gli strumenti strani, ero affascinato da tutti quei tastieroni grossi che vedevo ogni tanto nelle balere. Da lì ho scoperto un mondo di strumenti strani e rarissimi. Certo, capirli e suonarli è stato difficile, la maggior parte di loro non ha un libretto di istruzioni.

Nel disco ce ne sono molti davvero particolari: il theremin, il cristallarmonio, la sega sonora. Quali sono i tuoi preferiti?
Beh, mi piacciono tutti. Amo l’ondioline, che è il primo synth della storia. Ha una tastiera che bascula a destra e a sinistra ed emette un suono vibrato molto intenso. Tempo fa lo si metteva di fianco al pianoforte, sul palco, e veniva comodo perché simulava strumenti veri.

Come avete fatto a trovarne uno?
Tramite un fan di Vinicio, un signore di Pescara, che un giorno a fine concerto ci disse: ho comprato un lotto di vecchi mobili dall’Inghilterra, in mezzo c’era questa specie di tastiera, vi interessa? Il giorno dopo lo stavo già risistemando, anche se la prima volta che li prendi in mano, questi aggeggi, riemersi da passati lontani, non funzionano mai. Per questo ho imparato anche a restaurarli, ho sviluppato una certa sensibilità come riparatore. Tranne che per le parti elettriche, lì non ci metto mano, non ne capisco nulla.

E l’intonarumori? Cos’è?
Ah, quello è incredibile. In assoluto lo strumento più estremo che abbiamo usato nel disco. Risale al periodo del futurismo, lo inventò Luigi Russolo. È una scatola con dentro degli ingranaggi, si attiva con una manovella. Il suono che esce è particolare, somiglia a delle lamiere che sfiorano. Poi tirando una corda il rumore varia, o almeno così dovrebbe essere. Oddio, non è che si senta molto la variazione, la tonalità cresce giusto un pochino. Avrei voluto usarlo molto di più, ma è davvero difficile farlo convivere con la voce.

L’avete costruito apposta? Non dirmi che ne avete trovato uno originale.
Macché! é una storia pazzesca: un mio amico conosce una persona che a sua volta conosce un signore francese che ne possiede uno e sa come farlo funzionare… e allora l’abbiamo invitato a suonare nel disco.

Il prossimo passo sarà quello di inventare nuovi strumenti?
Per quello ancora c’è tempo. Ce ne sono talmente tanti che aspettano solo di essere riscoperti! Basta avere la passione e un po’ di pazienza. Io ogni tanto penso di essere un archeologo, più che un musicista.

Come hai conosciuto Capossela?
Sarà stato il 1994. O il 1995? Non ricordo esattamente. Eravamo al Chat Baker, un locale di Bologna. Suonavo la batteria in un gruppo jazz di quelle parti e lui era tra il pubblico. Stavo facendo uno shuffle, che è un particolare giro ritmico tipico della musica jazz. Si vede che lo stavo facendo bene, non so… fatto sta che Vinicio a fine concerto si avvicinò e ci mettemmo a chiacchierare. Siamo diventati amici da subito.

I tuoi testi sono al tempo stesso semplici e poetici. Come funziona il processo di scrittura?
Non sono mai stato un intellettuale, sono un tipo alla buona. Diciamo che vivo le emozioni molto intensamente e sono attratto dalle piccole cose. Per farti capire… se vedo un grande muro nero con sopra un piccolo puntino bianco, rimango colpito dal puntino bianco. Le piccole cose sono tutto. Le cose grandi non servono a molto: meno ne hai, meglio stai.

Che cosa rappresenta per te Valdazze? È un luogo fisico o qualcosa di più?
Per me Valdazze è l’obiettivo. Quando andavo dal mio paesino (San Piero in Bagno, ndr) a Cesena, lungo la strada, vedevo sui muri tutte quelle grosse scritte “Valdazze” con sotto una freccia. Erano opera del Cavalier Giorgetti, il creatore di Valdazze. Mi affascinavano. Ora ne sono rimaste pochissime… Valdazze è un’immagine che ho sempre tenuto dentro e che pian piano è venuta fuori. Fino a quando, finalmente, sono riuscito a visitare quel luogo così speciale.

Cosa hai trovato, una volta là?
Vuoi che ti racconti la scena più pazzesca? Un giorno sono andato su con mia moglie a fare un sopralluogo. Non ci crederai, ma lì c’è via John Lennon, con tanto di cartello ufficiale, di quelli belli in bianco e blu. Sotto si vede ancora il cartello vecchio, con scritto soltanto “via Lennon”. Ed è assurdo, perché è una via senza nemmeno una casa, che si perde nel bosco. Ti rendi conto? Via John Lennon è una via desolata..! Comunque… ero lì con mia moglie, a un certo punto sentiamo un forte rumore dietro di noi, ci giriamo e, con grande meraviglia, a pochissimi metri da noi c’è una coppia di cervi che attraversa la strada. Questa è Valdazze!

Da lì sono transitati diversi artisti: Bobby Solo, Jimmy Fontana, Francesco Marsella dei Giganti, che avevano stipulato con il Cavaliere un contratto per l’edificazione delle villette.
Per documentarmi al meglio ho comprato il librone che parla di Valdazze. Ci sono le foto di questi cantanti che visitano il cantiere e aiutano i muratori. E non solo loro: all’inaugurazione della cappella c’era anche Pippo Baudo! Pensa, nell’ultima pagina del librone c’è addirittura una foto che ritrae Monsignor Milingo a Valdazze… nella sua pur breve esistenza, quel paesino è stata una calamita incredibile per certi personaggi.

Come definiresti il Cavalier Giorgetti? Un sognatore o un impostore?
Non saprei. Io l’ho anche conosciuto, prima che morisse. Organizzava nel mio Paese un concorso di canto, qualcosa legato a Castrocaro, mi pare. Io non partecipavo, eh, ero solo lì a guardare. Comunque, ricordo che qualcuno me lo presentò a fine serata. Mi rimase impressa una cosa: nel bagagliaio dell’auto, una vecchia Mercedes, teneva un barattolo di vernice bianca e un pennello. Era il suo armamentario, sempre pronto per scrivere Valdazze a ogni curva.

Il 25 febbraio andrete a Valdazze per girare un videoclip. Avete invitato tutti i vostri fan, in una sorta di gita collettiva. Come andrà?
L’idea della gita mi piace molto. È una cosa nata per scherzo, un amico mi disse “potremmo fare un pellegrinaggio a Valdazze”, e io ho preso in prestito l’idea. Ci andremo in autobus, tutti insieme. Chi vuole, però, può venire anche con mezzi propri. Visiteremo Valdazze, ceneremo al ristorante e chiuderemo con una gran festa musicale, pronti a condividere un pezzo di palco con chi vorrà. Si ballerà fino a tarda notte, proprio come in una balera. Più che un videoclip, gireremo una telenovela. Il protagonista sarà Roberto Alpi, un bravissimo attore, che improvviserà a seconda delle situazioni che si verranno a creare. Poi ci sarà la scrittrice Grazia Verasani, che trasformerà la nostra gita in un racconto. Insomma, sarà un modo di festeggiare l’uscita del disco e contemporaneamente di far rivivere Valdazze a cinquant’anni dalla sua nascita.

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