Trasparenza e Merito. L'università che vogliamoScalfaro nelle parole di Scalfaro: “politica è saper dire no”

Scalfaro nelle parole di Scalfaro: “politica è saper dire no”

Stiamo assistendo, come sempre accade in questi frangenti, ad un profluvio di parole sulla vita e sull’attività politica di Oscar Luigi Scalfaro, personalità di spicco del mondo cattolico, magistrato, nonché ex Presidente della Repubblica (dal 1992 al 1999). Si è detto di lui “difensore della Costituzione”, si è ricordato il suo noto appello televisivo “A questo gioco al massacro, io non ci sto” in riferimento al suo presunto coinvolgimento nello scandalo dei fondi del Sisde, si è parlato della sua opposizione, in anni più recenti, al berlusconismo e alle sue leggi ad personam.

Di fronte al solito trito dibattito, diviso tra ritratti, da un lato agiografici, dall’altro denigratori, a noi pare più utile fornire al lettore una lettura storiografica della figura di Scalfaro, ripercorrendo le tappe della sua vita, grazie ad una bellissima intervista, uscita qualche anno fa sulla rivista di studi storici “Italia contemporanea” e finora rimasta totalmente sconosciuta al grande pubblico.

Formatosi negli ambienti dell’Azione cattolica e della Fuci (federazione universitari cattolici), divenne nel 1946, da giovanissimo, deputato democristiano e partecipò ai lavori dell’Assemblea costituente. Fervido credente e legato ad una concezione fondata sulla centralità del ruolo della famiglia tradizionale, patriarcale e cattolica, finalizzata alla stabilizzazione dell’ordine sociale e al senso dello Stato, dagli anni cinquanta agli anni ottanta prese parte, dentro la destra cattolica e vicino agli ambienti delle gerarchie ecclesiastiche, ad alcune battaglie moralizzatrici sul tema dei diritti civili e dei costumi italiani: per la repressione della sessualità e del libertinismo, contro il permissivismo dovuto alle influenze dei paesi nord-europei negli anni della secolarizzazione. Ma anche contro il consumismo eccessivo negli anni del miracolo economico, a favore della censura nei confronti di opere teatrali, cinematografiche e libri (nella commissione insieme a Guido Gonella). Oppure in occasione dell’approvazione della legge che regolarizzava il divorzio anche in Italia, quando presentò un ordine del giorno per bloccarne l’iter per incostituzionalità e poi quando, insieme a Paolo Emilio Taviani, fu tra i primi a proporre il referendum abrogativo della legge. O durante il dibattito sulla “194” (la legge che voleva regolamentare il problema dell’interruzione delle gravidanze e combattere gli aborti clandestini), quando fu tra i firmatari, insieme a Flaminio Piccoli, della proposta democristiana che riconduceva tutta la questione al codice penale, riducendo semplicemente la pena per il reato di aborto e limitando la possibilità di abortire al solo rischio di morte per la donna.

Se, da un lato, Scalfaro è stato, indubbiamente, uno strenuo oppositore del fascismo, avendo vissuto anche direttamente la lotta antifascista e partigiana, dall’altro, è stato anche un acerrimo anticomunista. Come si vide in occasione delle elezioni del 1948, a cui partecipò in prima persona accanto ai comitati civici di Luigi Gedda, poi durante il dibattito sulla cosiddetta “legge truffa” (1953); quando si schierò contro l’apertura al centro-sinistra con i socialisti, e, in particolare, nella sua polemica contro il segretario del Psi De Martino e la sua teoria degli “equilibri più avanzati” al governo, che prevedeva un coinvolgimento più diretto del Pci.

A questo proposito, appare più interessante ricordare un passaggio, poco sottolineato, della sua biografia politica, cioè il suo intervento come vice-presidente della Camera durante il sequestro di Moro, che si potrebbe sintetizzare nella frase “dove intendiamo andare”, in cui sostenne che, contro l’attacco delle Br, che intendevano mettere in ginocchio lo Stato, a poco sarebbe servito il blocco e le azioni di polizia, ma serviva invece una visione di lungo periodo. Soprattutto perché, e questo pare il punto significativo da sottolineare, occorreva, a suo avviso, “pensare al futuro, perché sarebbe imperdonabile accettare la modifica della linea politica, riconoscendo al Pci legittima patente di partito democratico, senza andare prima al responso elettorale” (cfr. verbali Direttivo Dc alla Camera, 4 aprile 1978). In questo modo pare si possa fugare ogni dubbio sulla accusa rivolta a Scalfaro di filo-comunista, sventolata più recentemente in varie occasioni. A questo punto, piuttosto che contribuire al dibattito con opinioni in libertà, spesso non provate storiograficamente, e giudizi post-mortem davvero poco utili a tratteggiare il quadro complessivo della sua personalità, ci sembra molto più interessante dare la parola direttamente al protagonista, riportando alcuni illuminanti stralci di questa pressoché sconosciuta intervista (“Italia contemporanea, n. 234, marzo 2004), su 4 temi generali, ancora oggi di singolare attualità.

1) sulla classe dirigente cattolica e il senso dello Stato:
“Quand’ero studente io ho avuto delle antipatie storiche, che partono da un punto che in genere nei libri di testo è visto con tutte le devozioni, e cioè il periodo cosiddetto liberale precedente al fascismo; essendo io del 1918, ho fatto evidentemente le scuole durante la dittatura, e la figura di Giolitti, anche se con prudenza, perché i professori dovevano avere del coraggio per farne qualche accenno positivo, campeggiava nelle edizioni scolastiche. Questo personaggio, che ha senza dubbio avuto doti di prim’ordine, ma che si è servito in modo marcato degli organi dello Stato, specialmente per assicurarsi il controllo delle elezioni, mi è parso portatore di una mentalità di corruzione intollerabile.

E quando si parla della corruzione nel Sud d’Italia, come se fosse una condizione prevalente, devo dire che quando nel Sud si è affermata l’unità nazionale, ciò ha significato il prevalere del mondo monarchico, sabaudo, con tutti i meriti, per carità, del Risorgimento italiano, ma anche con atteggiamenti non corretti proprio sul piano dello Stato: in questo senso il primo Stato unitario che si è presentato ai cittadini aveva doti positive ma portava su di sé un bel peccato originale. Non posso negare che anche il mondo cattolico mancasse largamente di senso dello Stato. Tutto sommato, però, trovava nell’autorità della Chiesa e del sommo pontefice una concezione di comunità organizzata, che era una specie di appagamento, anche dal punto di vista culturale e giuridico. Questa concezione in seguito ha determinato, a mio avviso, una certa fatica ad avere dello stesso il concetto di laicità […]

Un accenno personale: mio padre era di famiglia calabra, mia madre monferrina. Ha inciso molto sulla sua educazione la figura del nonno, che era ufficiale di Carlo Alberto. Aveva acquisito il senso della disciplina, del rispetto delle leggi, che, se non è tutto il senso dello Stato, ne è però una base molto forte. Ero alunno delle elementari quando mio padre, che si interessava quotidianamente degli studi di noi figlioli e qualche volta si fermava su qualche punto particolare spiegandolo con esempi, mi disse che aveva fatto un primo concorso nelle Ferrovie. L’aveva vinto. Un altro per le Poste: vinto anch’esso. Essendo di famiglia meridionale, era un po’ un’attrattiva per lui servire lo Stato da qualche parte ed esserne stipendiato. Quando vinse il concorso nelle Poste, sul foglio di comunicazione dell’esito c’erano tre linee: servivano per segnare tre sedi preferite. Su di esse, mi spiegò, aveva tirato una barra perché “lo Stato ha il diritto di mandarmi dove crede”. Questa frase mi colpì, anche se allora non ero certamente in grado di fare discorsi sul senso dello Stato. All’inizio non mi parve eccezionale.
In seguito, poco alla volta, non solo la vidi tale, ma forse anche un po’ strana. Poi però mi è stata di lezione.

Fin da studente di liceo sognavo di fare il magistrato. Scelsi questa vocazione: innamorarmi della vita di magistrato che cerca la verità per applicare la giustizia; servire la giustizia: per gli altri. Tale servire mi ha sempre colpito: dà un contenuto umano allo Stato, ente di per sé impalpabile, che anzitutto è la comunità di persone in mezzo alla quale vivo e opero e senza la quale posso solo morire […] Mi è capitato di reagire con qualche collega, che ricopriva responsabilità di governo, dicendo: “Tu nel fare questa proposta o nel dire questa frase non hai per nulla il senso dello Stato”. La reazione era suscitata dall’affermazione che “uno non può dire no a un amico”, oppure “se sono ministro o sono arrivato più in alto ancora, evidentemente ho anche dei doveri verso le persone che conosco”. È un tema, questo, che non disprezzo, ma sempre partendo dalla parità assoluta di condizioni e dall’imparzialità della valutazione. Quando uno fa le cose in modo pulito, ritengo debba avere il coraggio dei sì, anche se la vita politica chiede soprattutto il coraggio dei no.”

2) sui cattolici e la Costituzione:
“Ho avuto l’onore di conoscere Luigi Sturzo quand’ero matricola all’Assemblea costituente. Mi accompagnò un collega siciliano che era il segretario di Aldisio, perché Sturzo aveva avuto parole benevole nei miei confronti. Probabilmente qualcuno gli aveva parlato di me, perché altrimenti non aveva motivo di conoscermi. L’incontro fu breve. Sono stato però sempre colpito da questo prete che nella politica aveva il senso dello Stato e della laicità: sono testimonianze che spiegano più di mille argomenti. Questi concetti li aveva e li viveva. Da grande testimone.
Era un convinto assertore dello Stato e del fatto che lo Stato sia la comunità organizzata, che ha scelto un’istituzione: repubblica, monarchia, eccetera, che ha una struttura costituzionale ed ha poi un’organizzazione amministrativa. Questo è lo Stato nelle sue espressioni, dalle più alte alle più piccole — probabilmente ancora le più utili, con cui il cittadino ha a che fare.

Questo legame di Sturzo con le autonomie comunali è formidabile. Lo riviviamo nella Carta costituzionale all’articolo 5. In esso si ripete un termine che a me fa sempre venire i brividi: di emozione. È il verbo dell’articolo 2: “La Repubblica riconosce…”. Vi si legge, dico io, la condanna di ogni dittatura pensabile e il buttare a mare quelle dottrine che sarebbero comiche se non fossero state tragiche.
Per spiegare che lo Stato è il padrone dei diritti — l’unico padrone dei diritti privati: li concede, li sospende, li toglie, li ridona —, la dittatura ha chiamato “diritti riflessi” i diritti dei cittadini: è riuscita anche a dare un’impostazione giuridica alle cose storte. “Diritti riflessi”?! Il diritto è diritto. Se è un riflesso, non è neanche l’ombra, non è niente: è il nulla assoluto. Serve solo per riempire la bocca di qualche terminologia. Questo “riconosce” pone subito la persona come un prius e lo Stato un post: è la persona che mette al mondo lo Stato. Non è l’opposto.
Evidentemente il verbo è una risposta al famoso trittico che a scuola abbiamo sentito ripetere migliaia di volte: “Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”.

A questo proposito l’insegnamento della dottrina cristiana ascoltato all’Azione cattolica era il sovvertimento della dottrina fascista: tu sei libero perché Dio ti ha creato libero. Lo abbiamo affermato nella Carta costituzionale. Se si può dire così, lo abbiamo ripetuto nel dicembre 1948: quando l’assemblea delle Nazioni Unite ha fatto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, gli stessi diritti erano già stati proclamati nella Costituzione italiana ed erano in vigore dal 1° gennaio del 1948.
Il primo articolo della Dichiarazione dice: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e in diritti”. Quel “nascono” è immenso. Per quel verbo la visione cristiana fa dire: “Ringrazio Dio che mi ha creato”. Lasciando questa visione che comunque è di parte e scendendo alla par condicio del denominatore comune umano, esso significa che non devo dire grazie a nessuno! Lo Stato nasce e, io dico sempre, s’inchina a chi c’è prima e lo ha messo al mondo. Riconosce chi c’era prima, lo tutela… All’articolo 5 della nostra Costituzione il verbo “riconosce” ha il medesimo significato: l’autonomia comunale, organizzazione territoriale primaria, in un certo senso primitiva — lo dico nel senso di grande valorizzazione —, secondo logica discende dal riconoscimento dell’autonomia dell’articolo 1, che mette al centro la persona. Successivamente arriva questo dovere dello Stato, perché il fatto di mettersi insieme non è l’imperativo di qualcuno che arriva dopo: è una spinta che viene dal basso. Tutto questo per sottolineare l’esempio e la dottrina del grande prete Sturzo.”

3) sull’evasione fiscale, l’America e la guerra:
“L’articolo 53 recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Devo dire che lo Stato democratico, uscito dalla tragedia della guerra, non è stato all’altezza di mettere in pratica impostazioni che erano state concepite bene. Nei tempi più vicini a noi, progressivamente, il tutto si è aggravato. Basti pensare a Vanoni, che è stato un ministro delle Finanze di un’intelligenza e di una trasparenza di pensiero e di azione incredibili. Anche altri.
Ma credo di citare lui come l’esempio più alto. Poco alla volta noi abbiamo messo in forse la serietà dell’imposizione con condoni a pioggia. E i condoni sono la desolazione dei galantuomini e il trionfo dei furbi, intendendo per furbi persone che usano l’intelligenza per comportarsi da manigoldi. Che, oggi, il pesante degrado morale abbia portato ad affermazioni, espresse anche dal premier o da uomini di governo [si riferiva al precedente governo Berlusconi, n.d.a.], che incoraggiano il non rispetto delle norme perché sarebbero sempre eccessive e ingiuste, è una presa d’atto dolorosa. La situazione è grave, ma è un punto a cui non si poteva non arrivare quando si cammina sulla strada dei condoni permanenti […]

Sono in politica da sempre — da quando c’è la possibilità di fare politica — e credo nei  concetti di libertà e democrazia. In questa mia lunga esperienza ho sempre creduto nel rapporto di amicizia con gli altri popoli, e in particolare con gli Stati Uniti d’America, paese che crede nella libertà e che per essa ha lottato. Della prima e seconda guerra mondiale abbiamo infatti cimiteri di giovani che sono venuti a morire. Certo, non è che fosse soltanto un’azione di missionari, ma non si può negare che il fatto ha una valenza enorme e non è da dimenticare. Mai. Personalmente però ritengo che la scelta che gli Stati Uniti hanno fatto, mediante colui che oggi ne è a capo, sia sbagliata: con danni seri per il popolo americano e con danni enormi per la pace, la tranquillità e l’equilibrio, anche giuridico, del mondo, essendo purtroppo il solo paese più potente. Ma questo popolo ha un concetto di pagamento delle tasse che è ortodosso in un modo mirabile: colui che non le paga è praticamente escluso dalla comunità; è disprezzato e finisce in galera. Ma la condanna morale lo distrugge prima ancora di andarci […]

Quando però si arriva al pagamento delle tasse, il salto è vorticoso. Manifestiamo un inaccettabile servilismo, che ci fa stare con l’America quando sbaglia pesantemente, ma manteniamo un’autonomia, che è impresentabile, quando favoriamo l’evasione fiscale mediante condoni e parole fortemente negative. Tutto ciò fa credere che il non adempimento del dovere, di cui all’articolo letto prima, è cosa non solo trascurabile ma addirittura motivata dall’aggressione dello Stato e, se è penale, dalla persecuzione dello stesso per cui non solo ho il diritto ma anche il dovere di reagire. Speriamo di risorgere da questo abisso, che è la rottura completa della solidarietà, forza fondamentale che tiene unito un popolo. In questo modo, il “pezzente” — ritengo pezzente colui che ha stipendio fisso e paga le tasse — diventa tale e come cittadino e come persona: diventa persona degradata per il sistema immorale che viene impostato.”

4) sulla magistratura, la riforma del sistema elettorale e della Costituzione:

“Nella nostra vicenda politica abbiamo avuto una strana valutazione dei fatti. Indubbiamente alcuni uomini politici, anche in vista, hanno abusato del loro potere. Prima c’è stato il “dagli all’untore”, o peggio, come dissi da capo dello Stato, il “clima da ghigliottina”. (Dissi allora, e lo ripeterò sempre, che l’avviso di reato, diventato avviso di garanzia, era di fatto una fucilata nella schiena di una persona. “Questi ha avuto un avviso di garanzia, è colpevole. Va condannato; deve andare in galera”). Da questa posizione, folle, si è passati, in modo interessato, a quella opposta. La prima è stata una posizione di “impeto di piazza”: il cittadino ha capito che persone, che dovevano vigilare, hanno partecipato invece al delitto, al cattivo comportamento.

La seconda non è una spinta di piazza: alcune persone hanno sofferto ingiustamente — ed è vero —, altre sono state riconosciute innocenti dopo un calvario penoso — ed è altrettanto vero —, altre ancora, essendo colpevoli, ritenute e riconosciute tali, si sono trovate in parziale solitudine. È cominciata la spinta opposta: tutti innocenti, tutti perseguitati. Più complessa la ragione sottesa: la magistratura ha compiuto un’opera politica per mandare a casa quelli che allora governavano, e stravolgere le situazioni. Di qui la frase che ritorna: “Abbiamo diritto di essere giudicati dagli elettori e non di essere giudicati dai magistrati”. Il fatto è che uno ha diritto di essere giudicato dagli elettori ma se, nel frattempo, commette un reato previsto dal codice penale, è anche giudicato dai magistrati. Se con la condanna perde il diritto di votare e di essere votato, allora deve aspettare di riconquistarlo; se invece non lo perde, allora sarà rieletto e gli elettori, anche se è stato condannato, lo riterranno idoneo per continuare a operare in nome e per conto degli elettori stessi.

Purtroppo la situazione si è sviluppata in modo pesantemente patologico, con le conseguenze che oggi vediamo. Si è scoperto che “tutto il male viene dal sistema proporzionale”. Chi abbia cominciato, non lo so: varrebbe la pena di andare a prendere i giornali dell’epoca e vedere chi ha dato il via. Ma questa è un’imperiale sciocchezza, perché il male viene dall’uomo, non dalle procedure. Persino se una legge impone di fare una cosa sbagliata, sappiamo che la morale, come principi generali, autorizza a ribellarvisi. Comunque, articoli di fondo di allora, con firme autorevoli, hanno ripetuto che “cancellandosi la proporzionale, finisce Tangentopoli” (termine, questo, che non mi è mai piaciuto, ma che ha segnato un tempo storico).

Da dove esce l’affermazione che basta una legge elettorale diversa per purificare il mondo? È un discorso che non ha senso, però ha trionfato. Ed io ho vissuto un momento giuridico-costituzionale particolare per cui, ancora oggi, alcuni accusano o quanto meno criticano. C’è stato il referendum, che ha avuto l’ottanta e più per cento di voti favorevoli. Il referendum — è bene ricordarlo — è il momento in cui il popolo decide di esercitare direttamente, attraverso procedure varie, la sovranità di cui abbiamo parlato prima. I saggi dell’Assemblea costituente avevano messo alcune condizioni che però, poco alla volta, non sono riuscite a impedire che l’istituto del referendum diventasse un abuso vero e proprio, per esempio quando, a colpi di referendum, si è tentato di riformare la Costituzione o le leggi: cosa che non ha alcun fondamento giuridico. Di fronte a tale risultato referendario il capo dello Stato di allora, il sottoscritto, ha fatto un’interpretazione che ancora oggi non riesce a pensare che possa essere diversa: perché, nel momento in cui il popolo esercita direttamente la sovranità e decide con una maggioranza impressionante, il capo dello Stato è semplicemente un esecutore della volontà popolare.”

Ci è sembrato un doveroso omaggio, tenuto conto che si tratta di uno dei pochi personaggi molto celebri che non ha scritto alcuna autobiografia in vita e soprattutto sul quale ancora non è stata scritto alcun volume biografico. Anche solo questo particolare riesce a dare l’idea della singolarità dell’uomo e della serietà del personaggio intellettuale e politico. Si può considerare criticamente, e anche negativamente, i tratti distintivi dell’azione politica che Scalfaro ha impersonato nella sua lunga vita, si possono anche avere opinioni diverse su molti degli argomenti da lui affrontati, ma non si può non ammirare e apprezzare l’intelligenza, la profondità e lo spessore delle sue idee. Persone così, che hanno fatto, comunque la si pensi, la storia del nostro paese, andrebbero studiate in tutte le scuole come pilastri e basi della nostra educazione civica e della nostra democrazia. 

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