Contestare Napolitano: sembra essere questa la parola d’ordine di alcuni movimenti di protesta e di gruppi antagonisti. Era accaduto a Bologna, si è ripetuto oggi a Cagliari con i contestatori che hanno inseguito il presidente della Repubblica nel suo itinerario nella capitale isolana con slogan durissimi accompagnati anche da richieste di incontro.
Napolitano, che è uomo di spirito, ha ricordato ai suoi critici che lui non rappresenta le banche né il capitale finanziario mettendo così il dito nella piaga culturale degli attuali movimenti antagonisti. Perché l’accusa che viene rivolta a Napolitano esprime, pur nell’esiguità del numero dei contestatori, una rappresentazione della vicenda politica italiana condivisa da diversi settori della sinistra (e anche della destra berlusconiana).
Procediamo con ordine. Giorgio Napolitano è forse il presidente che più di ogni altro ha dovuto mettere le mani, e la faccia, nella crisi politica. Sono stati numerosi i presidenti della Repubblica che hanno rifiutato il ruolo notarile, in diverso modo e con diversa ispirazione. Gronchi e Saragat, ad esempio intervennero pesantemente nel vita politica. Il primo con il sostegno al governo Tambroni, nato con l’appoggio del Msi, che portò ai moti di piazza di Genova. Il secondo con le scelte fatte, e le parole dette, durante l’autunno caldo e la strategia della tensione. Prima di lui Segni cercò di imprimere una svolta a destra fino a compromettersi con la confusa stagione di De Lorenzo e fu duramente attaccato dallo stesso Saragat. Poi c’è stato il tempo di Pertini, il presidente partigiano, che mise in mora la classe dirigente dopo il terremoto dell’Irpinia e cercò un rapporto diretto con un’opinione pubblica che lo amò molto. Cossiga trascorse due anni in notarile silenzio, aprì con un discorso ad Edimburgo ai comunisti e fu immediatamente, da Andreotti, inchiodato alla vicenda Gladio cui reagì con terribile esternazioni che lo portarono alle dimissioni. Scalfaro fu l’acerrimo nemico di Berlusconi che lo considerò responsabile della sua caduta maturando un odio verso di lui che lo ha portato a non partecipare ai suoi funerali. Più tranquilla è stata la presidenza Ciampi anche se il suo tentativo di pacificazione con gli sconfitti di Salò sollevò durissime critiche a sinistra. A Napolitano è toccato forse il periodo più difficile: quello che accompagna una nuova durissima transizione italiana con un’economia sull’orlo del baratro e una politica priva di prestigio.
Napolitano non si è tirato indietro. Forte di un consenso popolare e di una credibilità internazionale senza precedenti, è riuscito nel miracolo di chiudere la stagione berlusconiana senza provocare traumi adottando la soluzione del governo tecnico sostenuto dai partiti che si erano contrapposti in questi vent’anni. Il miracolo politico ha richiesto una esposizione in prima persona del presidente che alcuni suoi critici considerano eccessiva. Sta di fatto che senza il suo intervento, e senza il suo sostegno al governo Monti, l’Italia sarebbe nelle stesse condizioni della Grecia con ripercussioni senza precedenti sull’intera intelaiatura europea. È normale quindi che la sua figura appaia di fronte all’opinione pubblica più esposta. Il deserto della politica italiana, infatti, vede stagliarsi due soli protagonisti, il capo dello Stato e l’attuale premier mente i partiti mostrano difficoltà insormontabili a riannodare il rapporto con l’opinione pubblica e con l’elettorato.
Sicuramente moltissimi italiani sono riconoscenti al presidente, in tanti lo considerano una figura affidabile e una garanzia contro il veloce e inarrestabile diffondersi del morbo della crisi. È altrettanto evidente che vi siano interessi politici e interessi economici offesi dal suo protagonismo e ansiosi di metterlo sul banco degli imputati. La modalità della contestazione, al di là della bizzarria di alcune critiche, conferma che vi è un’area politica estremistica, ma anche insediata nei partiti tradizionali, che tende a raccontare l’attuale fase politica come quella del sopravvento, appunto, delle banche e del capitale finanziario.
Se per alcuni Monti rappresenta il massimo di riformismo possibile, per molti altri il premier sancisce la supremazia dei poteri forti, interni e internazionali. Di qui l’atto di accusa a Napolitano e il susseguirsi delle contestazioni che ormai accompagnano ogni sua uscita pubblica. Se avesse una “c” nel suo cognome si sarebbe già trasformata in un “k”. Il presidente ha le spalle forti, un carattere indomito e una storia. Difficilmente si farà intimidire da chi l’accusa di favorire una nuova supremazia di classe. Tuttavia non ci si può non interrogare sul fatto che manca a Napolitano l’ombrello protettivo dei partiti. In un duplice senso. Essi appaiono spenti e desiderosi di essere “dentro e contro” l’esperienza Monti. Al tempo stesso non sembrano in grado di intercettare e guidare la moltitudine dei cittadini.
Accade così, e accadrà sempre più spesso, che la protesta si rivolgerà contro l’unica figura politica che non si nasconde. Quello che si può chiedere a questi partiti esangui è di non voltare la testa dall’altra parte o di metterla come gli struzzi nel terreno. Soprattutto è necessario che il dibattito politico, pur nelle necessarie contrapposizioni, non diventi primitivo come è accaduto in altre epoche storiche nel nostro paese. Si può esser d’accordo o no con Napolitano, o Monti, ma se si è in dissenso bisogna proporre qualcosa di credibile. Soprattutto se è normale che l’infantilismo dei movimenti veda nella crisi economica il complotto dei banchieri, la politica “adulta” (vero Stefano Fassina?) dovrebbe usare strumenti più raffinati di rappresentazione e di contestazione. Il dissenso, tutto il dissenso possibile è necessario e utile, ma tornar nelle caverne ideologiche può fare molto male al paese.