Da alcuni giorni nei salotti di sinistra (e in alcuni talk show) infuria una discussione tumultuosa su un paio di interrogativi destinati a restare tra noi almeno fino alle prossime elezioni.
Primo interrogativo: il governo Monti è di destra?
Secondo interrogativo: dopo un anno e mezzo di governo sobrio e competente, come faranno i partiti a presentarsi alle elezioni con le solite facce?
Partiamo dalla prima questione, su cui si discute sotto traccia fin da novembre ma che è improvvisamente esplosa alcuni giorni fa quando, nell’ormai nota intervista a Repubblica, Walter Veltroni ha dichiarato non solo che «non bisogna regalare Monti alla destra», ma anche che «Monti fa cose di sinistra». Quello che è accaduto dopo è cronaca di una baruffa in corso, di cui citiamo solo due dettagli: Stefano Fassina che dice a Veltroni «di sbagliare tutto» e Nichi Vendola che accusa Veltroni di «assomigliare a Marchionne» e di «voler cancellare il Novecento».
In questo clima è ovvio che le discussioni si accendano anche nei salotti. Dunque: i provvedimenti del governo Monti sono di destra o di sinistra? La questione non è di lana caprina. Fornire un giudizio simile significa che cosa siano, nel 2012, la destra e la sinistra, cosa non sempre semplice da capire. Facciamo alcuni esempi.
È di destra far pagare l’Ici alla Chiesa, mandare i finanzieri a Cortina e Portofino, promettere un taglio alle tasse se si riuscirà a recuperare fasce di evasione fiscale? Difficile sostenerlo. A a rigor di logica, si tratta di iniziative che qualunque governo avrebbe dovuto prendere e che invece non sono mai state prese: perché, visto che era così facile?
È di destra aumentare l’età pensionabile per avvicinarla ai livelli delle socialdemocrazie del Nord Europa, quando ormai l’età media degli italiani è arrivata a ottant’anni e cresce in modo inesorabile? La scelta di far lavorare più a lungo le persone sane non dovrebbe avere una connotazione politica visto che a pagare le pensioni sono i cittadini giovani e a percepirle altri cittadini più anziani (a meno che alcune categorie di cittadini non vengano considerati clienti da proteggere in cambio di voti).
È di destra introdurre elementi di liberalizzazione nel mercato delle farmacie, dei taxi, delle professioni? Qui il dibattito si fa confuso, specie se nel salotto appaiono notai, farmacisti o tassisti: anche i più progressisti di loro faranno comunque notare i vantaggi che i consumatori traggono da un limitato accesso a quelle professioni. (In questo caso si può far notare che negli Stati Uniti i taxi costano la metà rispetto all’Italia, le aspirine un decimo e i notai nemmeno esistono, e nessuno se ne lamenta).
Per ultimo, arriva l’argomento degli argomenti: l’articolo 18. È di destra spostare parte del welfare dai (cosiddetti) garantiti a tutti gli altri, per esempio eliminando la cassa integrazione straordinaria a vantaggio del sussidio di disoccupazione per tutti? Difficile sostenere che il lavoratore di un’azienda decotta sia un cittadino di serie A mentre un giovane che non riesce a entrare nel mercato del lavoro sia di serie B. In altri paesi i lavoratori delle aziende in crisi vengono difesi un po’ meno, quelli fuori dal mercato del lavoro un po’ di più: chi è più di sinistra? È possibile difenderli tutti a oltranza? Ci sono le risorse? La discussione infuria. Che cosa deve fare la sinistra? Che cos’è la sinistra?
Il freddo pragmatismo di Mario Monti ha gelato i partiti, li ha relegati sullo sfondo, invisibili ectoplasmi che improvvisamente sembrano non avere quasi più nulla da dire. I leader storici, abituati a esprimersi in politichese sui problemi delle alleanze piuttosto che sui contenuti, appaiono figurine obsolete. Di fronte ai problemi concreti sul tappeto, non avendo spesso competenze da esibire, hanno perso la voce.
Di fronte ad alcune scelte radicali annunciate dal governo, i partiti appaiono finalmente quello che sono diventati, non più associazioni di cittadini in grado di proporre visioni del mondo, idee, programmi, ma solo paralizzanti organismi per la difesa di determinate lobby. Spesso solo comitati d’affari. La gravità della situazione economica e l’arrivo del governo tecnico ha improvvisamente reso palese una verità che è sancita dai sondaggi: solo l’8 % ha fiducia nei partiti (sondaggio Ispo), e oltre la metà dei cittadini oggi non saprebbe cosa votare e forse rinuncerebbe al voto. Far notare questa realtà non è un esercizio qualunquista, semmai il contrario, perché la crisi dei partiti rischia di trasformarsi nella crisi della democrazia.
Il problema non è solo italiano. In diversa misura in tutto l’Occidente i partiti, specie quelli di sinistra, appaiono paralizzati di fronte alla sfida del cambiamento e hanno allentato i loro legami con i cittadini. Su questo tema, a livello internazionale, è in corso un dibattito di estremo interesse perché quasi ovunque la crisi economica e l’indebolimento della classe media inducono una progressiva sfiducia nel sistema rappresentativo.
Ovunque il meccanismo combinato della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica ha generato non solo un aumento della disoccupazione ma anche un’inarrestabile crescita delle ineguaglianze. Il meccanismo è complesso perché sposta a livello globale problemi che un tempo la vecchia politica poteva risolvere entro i confini di casa. La vecchia risposta della sinistra keynesiana – più welfare – appare inadeguata perché la spese pubblica è ormai ovunque esorbitante e non può essere ulteriormente gonfiata. Ma di fronte a una realtà nuova e difficile da decifrare, i partiti si sono spesso trasformati nei guardiani delle proprie lobby e i politici nei protettori dei propri clienti.
Francis Fukuyama ha recentemente pubblicato un brillante saggio (The Future of History) nel quale lancia un allarme che merita di essere raccolto. Fukuyama afferma che ormai da decenni «la sinistra (mondiale) non è stata in grado di articolare né una analisi coerente su quello che sta accadendo alla struttura delle società avanzate in rapido cambiamento, né un’agenda realistica che abbia una qualche speranza di difendere la classe medie».
La preoccupazione di Fukuyama, e di molti altri studiosi, è che questo vuoto di idee e di proposte porti a una vittoria dei populismi di destra e, più in generale, a un indebolimento del quadro democratico. È quello che accadde a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso. Potrebbe succedere di nuovo perché quella che stiamo vivendo è probabilmente un’era di crisi ancora più grave di quella di allora.
In questa situazione i vecchi partiti politici si sottraggono ad analisi coraggiose e ricorrono alle armi del populismo attribuendo all’Europa (e nel nostro caso al governo tecnico) il peso delle scelte impopolari. Preferiscono non entrare nel merito della rivoluzione che stiamo attraversando.
Dovrebbero dire agli elettori che siamo solo agli inizi, e che altri miliardi di lavoratori a basso costo, in Oriente e in Africa, stanno arrivando sui mercati mondiali per farci concorrenza. Che l’innovazione tecnologica continuerà ad avere effetti sempre più profondi, facendo crescere sempre più l’ineguaglianza tra le persone di talento e le altre (c’è un recente studio Ocse che lo documenta) e che milioni di posti di lavoro semplicemente spariranno per effetto dell’automazione degli uffici.
Non dicono come bisognerebbe ribaltare il nostro sistema educativo per rendere scuole e università competitive con il resto del mondo. Né come dovremmo cambiare il sistema fiscale, la pubblica amministrazione e le infrastrutture per spingere le aziende straniere a investire nel nostro paese invece di tenersene alla larga. Non dicono nulla. Se ne stanno acquattati, in attesa che il governo Monti passi. Si limitano a discutere se sia un governo di destra o di sinistra. Sperano solo che tolga qualche castagna dal fuoco che consenta loro di governare tranquilli per un po’, quando torneranno in pista. Ma dopo un anno e mezzo di governo Monti, se saranno sempre gli stessi a presentarsi sul podio, che effetto ci faranno?
Non sarebbe meglio utilizzare l’anno che abbiamo davanti per rimescolare le carte e cambiare qualche faccia? Perché non approfittare dell’aria pulita portata da questo governo per vederci chiaro e dividere la sinistra che guarda al nuovo secolo da quella con la testa rivolta al Novecento?