Le banche non danno soldi alle imprese, la colpa è (anche) di Bankitalia

Le banche non danno soldi alle imprese, la colpa è (anche) di Bankitalia

Si riconosce da una sigla criptica: XS0371711663. Non è un’obbligazione e nemmeno un’azione. È uno strumento ibrido, a metà tra i due. È stato emesso il 20 giugno 2008 da una società veicolo di Intesa Sanpaolo, non ha scadenza ed è scambiato sul mercato lussemburghese, una piazza “over the counter”, cioè non regolamentata. I suoi sottoscrittori intascano una cedola dell’8 per cento l’anno. Fatto 100 il suo valore nominale, l’anno scorso il titolo ha avuto un picco a 102 il 20 maggio, è sceso fino a un minimo di 52,99 il 13 settembre e oggi quota intorno a 86,7. Ieri l’istituto guidato da Tommaso Cucchiani ha comunicato i risultati del programma di riacquisto, tra gli altri, anche di questo strumento: su 1,25 miliardi di euro nominali, gli investitori ne hanno rivenduti a Ca de’ Sass 454,2 milioni. Una mossa vantaggiosa per la banca – comprando oggi a 86,7 ciò che valeva 100, la plusvalenza è di 13,3 – ma anche per quanti, non fidandosi di tenere in portafoglio un attivo dalla scadenza lunghissima e dall’andamento altalenante, hanno preferito una perdita circoscritta oggi a un incerto guadagno futuro. 

«Prima il rafforzamento patrimoniale, poi il credito alle imprese» è l’unanime risposta dei banchieri all’appello che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha rivolto loro sabato scorso al Forex di Parma. Palazzo Koch ha quantificato in 20 miliardi di euro la gelata del credito a dicembre, in termini di contrazione dei prestiti a società non finanziarie, leggi imprese: una cifra allarmante.

Perché allora, visto che le banche italiane hanno attinto dal rubinetto Bce fondi a tre anni (con un tasso dell’1%) ben 60 miliardi di euro, non li hanno utilizzati per allentare il credit crunch? Per tre motivi: uno, perché le banche hanno faticato a recuperare la fiducia reciproca per prestarsi soldi a vicenda sul mercato interbancario, e quindi hanno preferito ridepositare a Francoforte i fondi prelevati da Eurotower. Due, per riacquistare titoli di Stato. Tre: a causa di una norma di Bankitalia. La prossima settimana andrà in scena una nuova asta Bce. Le grosse banche italiane non hanno ancora fatto sapere se parteciperanno – nella scorsa operazione Unicredit aveva prelevato 12,5 miliardi, Intesa 12 e Mps 10 – ma una cosa è certa: il rafforzamento patrimoniale non si fa dall’oggi al domani. Gli imprenditori sono avvisati. 

Fino a fine gennaio, Palazzo Koch imponeva la sostituzione degli strumenti di capitale con altri equivalenti in caso di rimborso prima della naturale scadenza, a differenza di quanto previsto nel resto d’Europa. Un altro svantaggio per le banche italiane, già colpite pesantemente dall’impossibilità – ai fini del calcolo del patrimonio di vigilanza Core Tier 1 – di computare al costo storico i titoli di Stato detenuti nelle attività disponibili per la vendita.

«La mossa di Draghi ha letteralmente cambiato lo scenario: da dicembre a gennaio sono ripartiti gli acquisti, soprattutto sulla parte breve della curva dei titoli italiani e spagnoli, con le scadenze a due anni ritornate a livelli pre crisi» osserva Giovanni Fracasso, private banker presso Albertini Syz. Fracasso poi spiega: «Una parte della liquidità è servita alle banche per ricomprarsi il debito più oneroso». «Una mossa che sicuramente andava fatta prima, ma che non è stata possibile anche per via della normativa della Banca d’Italia», nota un analista di una primaria banca italiana. I bond ibridi presentano più svantaggi che vantaggi: sono costosi – pagano infatti un interesse tra il 5 e il 9% – hanno delle fortissime oscillazioni, quindi non sono adatti ai cassettisti (in alcuni casi lo spread tra denaro e lettera è del 15%), ma soprattutto non sono conteggiabili nel novero degli attivi che formano il “cuscinetto” anticiclico grazie al quale gli istituti saranno in grado di rimanere stabili anche in condizioni avverse. 

Qualche esempio: il titolo XS0131512450, emesso da Ubi banca nel lontano 2001, a maggio è salito a 101, poi è sceso a 57 a metà dicembre, e adesso quota intorno a 75-75,5. Rendimento: 7,3 per cento. Ancora: l’ibrido del Banco Popolare emesso nel 2007 (XS0304963290) ha avuto un massimo ad aprile a 82,24, per poi andare a picco fino a 37, e oggi vale 71, con tasso del 6,1 per cento. Il bond Unicredit offerto nel 2005, con cedola del 5,3%, valeva 88,3 a metà aprile, 41,4 il 30 novembre e ora quota a 66,3. Alti e bassi da cardiopalma. 

Nel comunicato diramato ieri, Intesa ha reso noto che, dal programma di riacquisto di questi particolari bond, l’utile relativo ai primi tre mesi dell’anno avrà un beneficio di 180 milioni di euro, «corrispondente a circa 6 centesimi di punto in termini di Core Tier 1 ratio, considerando gli attivi ponderati per il rischio (RWA) al 30 settembre 2011». Gli analisti calcolano che per il Banco Popolare l’ammontare di simili strumenti è pari a 1,2 miliardi, contro i 600 di Mps e i 400 di Ubi. Il piano dell’istituto guidato da Fratta Pasini prevede un buyback di 12 di questi titoli, per una plusvalenza stimata in 200 milioni di euro, pari a circa l’8% dei 2,7 miliardi di capitale aggiuntivi richiesti dall’Eba. Il guadagno per Ubi sarà invece di 14 milioni. Basilea III, ha detto Visco, «conferma il trattamento favorevole dei crediti alle piccole e medie imrpese già previsto da Basilea 2». I banchieri rispondono: «Prima il rafforzamento, poi le imprese».

Twitter: @antoniovanuzzo
 

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