Cara Virginia, gentile Linkiesta
l’intento della mia intervista al Giornale era chiaro: riaprire il dibattito su un tema delicato che rappresenta una delle principali sfide culturali e civili che la politica dei nostri tempi ha il compito di affrontare e cercare di risolvere. Negli ultimi tempi si sono accumulate tra Camera e Senato all’incirca una ventina di proposte di legge sul tema della cittadinanza: testimonianza di una diffusa sensibilità; ma, spesso, la discussione è durata solo il tempo della conferenza stampa di presentazione dell’ennesimo nuovo provvedimento. Che poi, infatti, ha finito la sua corsa, fermo lì, nei cassetti delle varie Commissioni parlamentari.
Per questo credo che più che aggiungere testi legislativi sia utile e necessario affrontare la realtà, aprire un confronto sereno e aperto coinvolgendo tutti i soggetti protagonisti di questo fondamentale passaggio di civiltà. E, in primo luogo, con le comunità di cittadini immigrati che vivono nel nostro Paese e con le persone che sperimentano sulla loro pelle cosa significa vivere e amare un Paese ma sentirsene (legalmente) esclusi. È con estremo piacere che, tra le diverse lettere che ho ricevuto dopo l’intervista, c’è stata quella unitaria di diversi esponenti e rappresentanti di associazioni di stranieri in Italia, che hanno voluto solidarizzare con me ed esprimere condivisione.
Ho sempre evitato qualsiasi approccio ideologico alla questione. Ritengo, da molto tempo, – e l’ho ribadito in interviste, dichiarazioni e nei libri che ho scritto – che lo ius soli non possa essere la soluzione automatica né auspicabile per le questioni della cittadinanza. E, allo stesso tempo, credo che i modelli classici proposti sotto il titolo del multiculturalismo non abbiano prodotto risultati soddisfacenti. Non è un caso, anzi, che l’ideologia del multiculturalismo sia in crisi in paesi con una tradizione di immigrazione ben diversa dalla nostra, come il Regno Unito o la Germania.
In Italia dobbiamo evitare di ripetere quegli stessi errori che in altri Paesi si sono tradotti in grossi fallimenti nell’integrare i nuovi cittadini. Ma è anche necessario intervenire urgentemente: un fenomeno tanto complesso, come dimostrano molte acute ed appassionate osservazioni di Virginia, non lo si gestisce lasciandolo a sé stesso. Nell’intervista al Giornale ho voluto ribadire questa urgenza, nella convinzione che solo un dibattito trasparente e serio possa portare il Parlamento all’approvazione di un testo condiviso ed efficace.
Non sono contrario allo ius soli per motivi astratti: non penso che il solo fatto di nascere sul suolo italiano possa di per sé valere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Condivido l’idea che aspettare 18 anni sia un’enormità per coloro che in Italia sono nati, vissuti, hanno studiato nelle nostre scuole e parlano la nostra lingua. Si può pensare a ridurre i dieci anni per ottenere la cittadinanza per gli adulti e soprattutto ad eliminare lungaggini e rinvii per chi ne ha diritto; così come a concederla dopo la terza media ai bimbi nati qui. Sostengo che si debba dare un valore a questo percorso: il rilascio della cittadinanza non è la firma di un funzionario, ma può e deve essere un traguardo di vita. Desiderato, e sicuro nei meccanismi: il punto di approdo di un percorso di conoscenza, studio, volontarietà e condivisione della nostra Carta fondamentale.
Nessun “leghismo” nelle mie parole, ma, anche, nessun approccio semplicistico ed ideologico. In molti ignorano – o fanno finta di ignorare – che il nostro Paese ha caratteristiche diverse dagli altri, che è per molti immigrati un Paese di transito e non una destinazione finale; che la maggior parte dei flussi clandestini sono oggi gestiti da reti criminali che fanno dello schiavismo contemporaneo un business ignobile che io stesso, da Presidente del Copasir, ho documentato e denunciato con un ampio Rapporto al Parlamento.
Se vogliamo essere seri nel dibattito e rispettosi nei confronti dei molti immigrati onesti che lavorano e vogliono integrarsi – a maggior ragione se intendono divenire italiani – e sperano di regalare ai loro figli un futuro migliore non possiamo che partire da qui. Certo, sullo sfondo pesano come un macigno l’assenza di una politica europea dell’immigrazione e le squalificanti scene delle frontiere chiuse nei giorni dell’emergenza-immigrati provenienti dal Nord Africa. Ma a maggior ragione perché il Governo Monti ha riposizionato l’Italia nei tavoli europei che contano, oggi è tempo di far chiarezza in casa nostra per stimolare un approdo europeo comune in materia di immigrazione e di un percorso europeo di cittadinanza.
Dopo che il mio secondo figlio, adottato in America Latina attraverso il Servizio Sociale Internazionale, è arrivato con noi in Italia con un permesso di soggiorno, sono passati alcuni anni prima che ottenesse un passaporto italiano. È stata una normale procedura. Non credo che chiunque abbia il desiderio, o il sogno, di diventare italiano debba considerare umiliante l’attesa di alcuni anni. Piuttosto, dobbiamo far sì che i nuovi italiani siano consapevoli dell’importanza di diventare parte della nostra comunità nazionale: attraverso un apprendimento certificato della lingua italiana e la condivisione della Costituzione potranno essere uguali e migliori di chi porta l’eredità di aver costruito una Nazione democratica, fondata sui diritti umani, aperta e solidale.
Perché l’integrazione non è una parola che dura il tempo di una battuta televisiva. È una faticosa, complicata realtà che si misura nel corso di decine di anni, per milioni di situazioni ciascuna diversa, difficile, affascinante.
* Senatore Francesco Rutelli, presidente di Alleanza per l’Italia
Vedi anche: la lettera di Virginia Odoardi a Rutelli