“Con la crisi nelle imprese serve un nuovo umanesimo”

“Con la crisi nelle imprese serve un nuovo umanesimo”

Ambiguità della cultura manageriale

Ma perché nel nome dell’autonomia si spingono le persone a prove estreme? Per trovare una risposta convincente a questo interrogativo bisogna scavare nel mutamento di paradigma che si è verificato nel mondo del management dalla fine degli anni Settanta, quando il modello aziendale paternalistico ha lasciato il posto a quello individualista.

In questo nuovo paradigma l’accento si è spostato sull’autonomia del manager e del lavoratore, ma – attenzione! – autonomo nel senso di capace di essere disponibile a elargire impegno continuo e disponibilità assoluta. Autonomo per essere più flessibile, anzi completamente flessibile e subordinato alle esigenze aziendali in continua variazione. Autonomo per essere del tutto vincolato e subordinato alle esigenze del mercato e dell’azienda. Autonomo per potersi caricare sulle spalle la responsabilità di loro eventuali fallimenti.

All’interno di questo nuovo paradigma si è sviluppata una raffinata sofistica manageriale, una “lingua ambigua” che ha imparato a intrecciare assieme una cosa e il suo contrario: l’impegno e la flessibilità, l’autonomia e il conformismo. Al centro vi è una doppia ingiunzione: sii autonomo per essere completamente sottoposto all’azienda e al mercato. Un esempio classico di double bind, di doppio legame: ti ordino una cosa perché tu sia disponibile a trarne le conseguenze opposte.

Il tutto con una finalità chiara, evidente: costruire un management e un personale aziendale pronto a concedere una disponibilità assoluta alle esigenze del mercato e dell’azienda proprio perché convinto di farlo per libera scelta. È una punta estrema, particolarmente raffi nata, del conformismo e della manipolazione: far credere agli schiavi di essere padroni di se stessi. Una schiavitù dorata, ovviamente, volontaria, autonoma, liberamente scelta; ma che non ammette deroghe. O sei dentro (e ne accetti tutte le conseguenze) o sei fuori.

L’uomo a cui pensa questa cultura manageriale è una persona in grado di adattarsi a ogni circostanza, un uomo senza spessore, dove ciò che conta non è l’interiorità e la forza dei suoi valori ma la flessibilità del suo carattere e la predisposizione ad accettare ogni vincolo esterno. L’umanesimo, che sembrerebbe evocato attraverso i richiami alla libertà e all’autonomia della persona, è ridotto a pura facciata. L’etica è priva di una sua esistenza autonoma: essa è governata dalla legge del mercato. Un manager o un lavoratore sono valutati solo sulla base della loro capacità di adattamento al mercato. Si può così capire allora la particolare declinazione che il paradigma individualista ha preso in molti testi che hanno furoreggiato nel mondo manageriale. In uno di essi, in La virtù dell’egoismo di Ayn Rand possiamo leggere testualmente: «la vita è una giungla, dove sopravvivono solo i migliori. Per reggere la prova bisogna abituarsi a spingere al di là dei limiti». Anche troppo facile leggere qui i presupposti e le giustificazioni che hanno spinto formatori troppo zelanti e conseguenti, incuranti perfino del ridicolo, a inventare le prove dei carboni ardenti e le immersioni con gli squali.

Con gli occhi bendati?

Con una simile, ambigua cultura manageriale alle spalle è potuto accadere, alcuni anni fa, che una grande banca italiana abbia invitato i propri manager e i propri quadri intermedi ad apprendere e assorbire durante un corso di formazione alcune elementari tecniche di manipolazione. Il corso prevedeva che dipendenti e funzionari della banca dovessero imparare ad affidarsi completamente, come ciechi, nelle mani dei propri colleghi: dovevano imparare a camminare a occhi chiusi, senza paura, affidati nelle mani di un’altra persona. La finalità del corso era chiara: i bancari dovevano imparare a obbedire ciecamente al management e nel contempo attrezzarsi per conquistare la fiducia totale dei propri clienti, per condurli docilmente, proprio come si fa con i ciechi. Insomma, farsi manipolare e manipolare senza turbamenti di coscienza.

Quel corso di formazione fu organizzato in un grande albergo milanese poche settimane prima che esplodessero le vicende dei bond di Parmalt e della Cirio, piccolo e provinciale preludio del terremoto che a distanza di pochi anni sarebbe esploso nella finanza globale. La domanda che è doveroso esplicitare è molto semplice: per le banche italiane coinvolte nel crack Cirio e Parmalat sarebbe stato meglio avere funzionari manipolati e manipolatori o uomini davvero liberi e autonomi, capaci di ribellarsi all’ordine di appioppare ai clienti dei bond che tutti nell’ambiente sapevano valere meno della carta straccia?

È una domanda lecita non solo dal punto di vista morale, per i danni arrecati a tanti risparmiatori, ma anche dal punto di vista aziendale: i bilanci delle banche italiane non hanno ancora completamente riassorbito i danni di quel cinismo e di quella spregiudicatezza manipolatoria. L’ambiguità di questa cultura manageriale si è rivelata dannosa per le stesse banche e per le stesse aziende che l’hanno cavalcata acriticamente. Ed è del tutto evidente che questo ragionamento potrebbe essere esteso al mondo della finanza globale che per anni e anni si è abituato a a ragionare solo sull’interesse a breve e a brevissimo termine, si è rivelato insensibile a ogni riflessione e interrogativo sul lungo periodo e proprio per questo motivo ha gettato il mondo intero in una crisi particolarmente lunga, dolorosa e incerta nei suoi esiti.

Cultura manageriale e nuovo umanesimo

Le banche (e ovviamente, le aziende stesse) avrebbero tutto l’interesse a rivedere la sofistica manageriale che ha imperversato in questi anni. Il duro linguaggio della crisi – questa comunque è l’ipotesi ottimista con cui si può concludere il ragionamento – spinge a interrogativi nuovi, costringe a rivedere quell’evocazione astratta e ambigua della centralità della persona, quell’umanesimo di facciata che abbiamo scovato e messo in risalto.

Nella società e nelle aziende, sottoposte a prove durissime, servono uomini e donne davvero liberi, capaci di esercitare il pensiero critico (critico, nel senso etimologico, da crino = giudico), uomini e donne capaci di sfuggire alla manipolazione, sorretti da valori forti, responsabili ma proprio per questo capaci anche di scegliere secondo coscienza. Insomma questa crisi sta mettendo in discussione le ambiguità di un paradigma che ha dominato per trenta e più anni e spinge verso la ricerca di un nuovo umanesimo.

È il paradigma stesso che ha dominato la cultura aziendale e manageriale negli ultimi trenta e più anni che deve essere ripensato: esso deve superare le ambiguità del modello individualista e incorporare gli stimoli e i valori di una nuova tensione umanistica. Ed è questa la sfida cui deve rispondere la formazione manageriale: liberarsi dagli eccessi e dalle ambiguità e recuperare l’impianto e l’ispirazione umanistica che dovrebbero essere intrinseci a ogni autentico atto formativo.

Ferruccio Capelli

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