“Giustizia è fatta”, anche la Chiesa pagherà l’Imu. Mentre molti si congratulano con il governo dei tecnici per aver messo fine, seppur con precisazioni ancora da farsi, al privilegio cattolico dell’esenzione dalle imposte sugli immobili, le fondazioni bancarie tirano un sospiro di sollievo. Continueranno a non pagare. Una questione non da poco, considerando le sedi di pregio in loro possesso, come palazzo Melzi d’Eril a Milano della Fondazione Cariplo, seconda socia di maggioranza del Gruppo Intesa-San Paolo. In Italia le fondazioni bancarie sono 89, hanno una capitalizzazione finanziaria di circa 150 miliardi di euro e dispongono di un patrimonio di oltre 50 miliardi. Sono enti pubblici e sono esenti dal pagamento dell’Imu proprio perché si professano no-profit. Eppure a guardare i numeri non sembrano solo enti di beneficenza.
«La quota impegnata nelle partecipazioni bancarie si attesa intorno al 40 per cento, mentre il resto è investito in titoli di Stato ed in società private scelte esclusivamente secondo il criterio della redditività» secondo il senatore Elio Lannutti dell’Idv, che ha tentato di sollevare il problema con un’interrogazione parlamentare. «Da questo capitale le fondazioni ricavano ogni anno lauti guadagni, devoluti ad attività di utilità sociale: il settore maggiormente finanziato è quello artistico e culturale. È opinione diffusa che tale predilezione sia dovuta al fatto che le manifestazioni culturali siano un’ottima occasione per fare pubblicità alla propria banca». La suddivisione dei comparti vede infatti circa un trenta per cento nel settore artistico-culturale, intorno al 16% in istruzione, poi quote di circa il 12% in assistenza sociale e volontariato e quindi percentuali inferiori in sanità e ricerca. Più della metà degli importi è erogata a soggetti privati, l’80 per cento nelle aree del centro e del nord, territori in cui le fondazioni sono presenti. «Ci sono delle storture in questa falsa beneficenza» sottolinea Lannutti. «Prima della beneficenza, bisognerebbe pagare le tasse». Già, tasse e imposte. Balzelli che le fondazioni bancarie preferiscono evitare, nonostante «le Sezioni unite della Cassazione nel 2009 abbiano stabilito che le fondazioni bancarie non possono godere di sconti fiscali, in quanto non sono equiparabili agli enti del mondo no profit» ricorda il leader dei Verdi Angelo Bonelli, che precisa «nel nostro ordinamento esiste una presunzione di esercizio dell’attività di impresa bancaria in capo a coloro che in ragione dell’entità della partecipazione al capitale sociale sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio».
Di certo le fondazioni bancarie costituiscono un’anomalia tutta italiana. Nate come risposta alle richieste europee di liberalizzazione, in previsione dell’unificazione dei mercati dei capitali nel 1992, nel tempo hanno rivelato una natura contraddittoria. All’epoca in Italia il sistema bancario era pubblico e l’Europa richiedeva banche in grado di operare in base ai criteri di mercato, prive quindi di controllo pubblico. La risposta, la legge Amato del 1990, fu un tipico compromesso italiano. Le banche furono infatti trasformate in società per azioni e si crearono le fondazioni, enti pubblici in grado di detenere il controllo della banca. Enti pubblici sui quali i politici potevano e possono esercitare una forte influenza.
Perché se in linea di principio si può controllare una banca, acquistando una quota di maggioranza, di fatto le fondazioni sono dotate di pacchetti azionari tali da impedirlo. A dire il vero, dopo innumerevoli sforzi e richiami da parte dell’Europa, oggi nessuna fondazione possiede quote maggioritarie delle banche controllate, ma il “problema” è stato presto ovviato. Le fondazioni hanno incrementato l’acquisizione di pacchetti azionari in altre banche, generando un intreccio nei consigli di amministrazione che permette di salvaguardare il controllo. E così se in Intesa Sanpaolo, la fondazione di riferimento, la Compagnia San Paolo, detiene circa il 10 per cento dei diritti di voto, le fondazioni CariPaRo e Cariplo hanno ciascuna quote rispettivamente, del 4,924 e del 4,680 per cento, e molte altre possiedono quote significative.
Un escamotage criticato anche da Mario Monti, nella passata veste di commissario europeo per la concorrenza, perché si riflette nel modo in cui viene concesso il credito alle imprese e nelle scelte degli investimenti. Il meccanismo del controllo delle banche attraverso le fondazioni si traduce di fatto in un notevole controllo da parte dei politici sul sistema bancario, senza farlo risultare di proprietà pubblica. Il patrimonio indivisibile, l’approvazione dello statuto e ogni scelta strategica delle fondazioni bancarie è di fatto esercitato da un organo i cui componenti sono nominati per la maggior parte da comuni, province, camere di commercio e altri organismi pubblici. Due dei 21 consiglieri della Compagnia San Paolo, ad esempio, sono nominati dal comune di Torino, uno dalla regione Piemonte e poi uno dalla provincia di Torino e ancora un altro dal comune di Genova. E poi altri due dalla Camera di commercio di Torino, quindi uno da quella di Genova e ancora un altro da quella di Milano e da quella di Roma. Una storia che si ripete in ogni fondazione. In Cariplo il Consiglio di amministrazione è nominato da una Commissione centrale di beneficenza, con 20 membri espressione degli enti locali, dalle provincie di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, alla regione Lombardia, al comune di Milano e alle camere di commercio, mentre altri 20 sono nominati dagli enti più vari, tra cui la diocesi di Milano e i rettori delle università lombarde. Si calcola che le sole province controllino circa 50 poltrone nei consigli di amministrazione delle fondazioni bancarie, risultano di fatto determinanti per la definizione degli assetti negli istituti di credito. Una ragnatela di poteri tra politica e banche, in cui e fondazioni continuano a mantenere il loro status quo di enti benefici e privi di utili. Enti che di certo non possono pagare l’Imu.