I più protetti di tutti? I dirigenti senza articolo 18

I più protetti di tutti? I dirigenti senza articolo 18

Si è fatto un gran parlare in questi anni e in questi mesi di flessibilità nel mondo del lavoro. Di quella in entrata, ma soprattutto di quella in uscita, regolata dalle legge 604/1966 ed a cui si applica, per le imprese con più di 15 dipendenti, il famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. L’abolizione dell’articolo 18, anche a giudicare dal dibattito in corso in queste settimane, è il simbolo della battaglia di Emma Marcegaglia e della sua Confindustria per introdurre ulteriore flessibilità nel mercato del lavoro. Nella discussione su come renderne le regole più rispondenti alle esigenze delle imprese, si è però sempre incredibilmente omesso di parlare di quel pezzo di mondo del lavoro costituito dai dirigenti. La loro circolazione e licenziabilità, viste in particolare dall’angolatura delle piccole-medie industrie, sono tutt’altro che facilitate nel contesto italiano. Ciò, a causa di un quadro normativo-contrattuale, frutto di un modello di relazioni industriali tagliato sulle grandi aziende e ispirato a schemi poco aderenti alla necessità delle piccole-medie imprese di coniugare managerialità, flessibilità e morigeratezza del costo del lavoro.

Basti pensare, ad esempio, che su una retribuzione media di circa 130mila euro percepita dai dirigenti, una recente indagine condotta da Hay Group ha stimato come appena il 18,5% sia rappresentato dalla parte variabile, quella cioè legata al raggiungimento degli obiettivi e che in altri Paesi costituisce la componente principale dello stipendio del manager. Il carattere poco dinamico dei contratti dei manager, unito ad una serie di voci di costo non indifferente fissate dai contratti collettivi nazionali, contribuiscono a spiegare perché il tasso di managerializzazione nelle imprese italiane sia tra i più bassi d’Europa. Secondo uno studio del 2010 di Manager Italia, il paese della Ue-15 con la maggiore incidenza di manager è il Regno Unito, dove se ne contano 15 ogni 100 dipendenti, seguito a grande distanza dall’Irlanda (10,3%), dalla Finlandia (7,6%), dall’Olanda (7,4%), dal Belgio (7,3%), dalla Francia (5,7%), e così via. Con un’incidenza, nel settore privato, dello 0,85 per cento, l’Italia occupa la terz’ultima posizione in graduatoria, precedendo di pochissimo la Grecia e il Portogallo.

Stando ai dati elaborati dall’Inps nel 2010, i dirigenti del settore privato in Italia sono infatti pari a poco meno di 124mila unità. Un numero, questo, che rappresenta appena l’1,55% degli 8 milioni di dirigenti presenti nell’Europa a 15. Dei 124 mila dirigenti italiani, il 55% è impiegato in aziende con più di 100 dipendenti, il 36% in quelle che hanno un numero di addetti compreso tra 10 e 100 ed appena il 9% dei dirigenti opera nelle imprese con meno di 10 dipendenti. La presenza di figure manageriali è insomma esigua al comando delle nostre imprese, soprattutto in quelle di medie dimensioni, nelle quali la figura del manager continua ad identificarsi con la proprietà e che, complice dinamiche di mercato sempre più complesse, avrebbero maggiore bisogno di investire in figure apicali, altamente specializzate. Ma a quale costo e con quali rischi, stante l’attuale taglio dei contratti collettivi nazionali della dirigenza? Scorrendo l’articolato contenuto del contratto nazionale per i dirigenti firmato da Confindustria nel 2009, emerge innanzitutto che il cosiddetto trattamento minimo complessivo di garanzia (TMCG) «teso a garantire un livello minimo di retribuzione complessiva annua […] consono alla figura dirigenziale» varia da un minimo di 61mila euro (per dirigenti con meno di 6 anni di anzianità) ad un massimo di 76mila euro (per dirigenti che sono tali da più di 6 anni.

Nel testo dell’accordo si legge che il TMCG – acronimo che suona bene a pronunciarlo ma altro non è che il “fratello” dello “stipendio minimo” o del “minimo contrattuale” a cui fanno riferimento gli altri CCNL – assorbe tutti gli elementi che compongono la “busta paga” con l’esclusione di sole tre voci: il compenso di importo variabile collegato ad indici o risultati (MBO-management by objective), concordato individualmente e/o collettivamente; le eventuali gratifiche una tantum; l’importo aggiuntivo per rimborso spese non documentabili.

A questi in realtà vanno aggiunti anche gli scatti di anzianità. Infatti è pur vero che anche nel rinnovo contrattuale del 2009 ed analogamente a quanto avvenuto per gli altri contratti collettivi nazionali, è stato confermato il principio, sancito nel 2004, del superamento dell’aumento biennale automatico – per un massimo di 10 bienni – pari a 129,11 euro al mese. Ma tale scatto di anzianità, tipico dei contratti collettivi nazionali siglati per operai ed impiegati, continua a valere “in via transitoria”, come si legge nel testo dell’accordo firmato per Confindustria da Alberto Bombasassei, per la gran parte dei dirigenti industriali, ossia per coloro che sono stati assunti prima del 24 novembre 2004.

Nel CCNL dei dirigenti industriali, Confindustria e Federmanager richiamano l’intenzione di «adottare misure concrete tese a facilitare l’adozione di sistemi di retribuzione incentivanti e premianti per legare quote di retribuzione del dirigente ai risultati aziendali». Si fa riferimento a «tre modelli alternativi di MBO a cui le imprese potranno fare riferimento qualora non volessero predisporre propri piani aziendali», allegati all’articolo 4 del contratto ma di cui peraltro non v’è traccia. Ma al di là di ciò, conta il fatto che a 3 anni dalla stipula del CCNL sui dirigenti, non risulta essere stata intrapresa da Confindustria alcuna azione tesa a spostare gradualmente il baricentro del compenso dalla parte fissa a quella variabile. Degno di nota pure il fatto che nello stesso CCNL – probabilmente al fine di evitare che il datore di lavoro ponga troppo in alto l’asticella degli obiettivi che i dirigenti devono raggiungere per guadagnarsi il premio! – è presente una sorta di norma di salvaguardia, in apparenza figlia dell’impostazione dei contratti collettivi che Confindustria firma con i sindacati Confederali: «fermo restando che l’adozione di forme di retribuzione per obiettivi è sempre e comunque rimessa ad una libera scelta datoriale, ove le aziende decidano di adottare un piano di MBO, la rappresentanza dei dirigenti dovrà essere informata, di norma una volta l’anno, circa i criteri e le modalità di attuazione dei sistemi incentivanti e premianti adottati».

È poi previsto che per verificare l’effettività delle misure adottate ed il grado di diffusione dei «modelli di MBO allegati al contratto» le parti affidano il compito di monitorare il «livello di presenza e funzionamento delle forme di retribuzione variabile collegate a criteri oggettivi e ad obiettivi collettivi ed individuali» all’Osservatorio bilaterale permanente. Un istituto quest’ultimo, che risulta però aver indagato un’unica volta, nel 2006, la vocazione delle imprese aderenti a Confindustria a dotarsi di sistemi di retribuzione variabile.

Continuando a scorrere le diverse voci che compongono il contratto collettivo dei dirigenti industriali, spicca il fatto che questi, oltre a potersi far rimborsare spese non documentabili fino a 85 euro, godono di corpose e costose – per le imprese – coperture assicurative e previdenziali integrative. Per tutti i dirigenti iscritti al fondo di previdenza integrativa “Previndai” che vantino un’anzianità aziendale superiore a 6 anni, l’accordo del 2009 ha introdotto l’obbligo per le imprese di corrispondere un contributo minimo di 4mila 500 euro per ogni dirigente, che saliranno a 4mila 800 euro a decorrere dal 2013. Sul fronte dell’assistenza sanitaria integrativa, i contributi che le imprese devono versare annualmente per ogni dirigente al “FASI”, sono invece pari a 1.664 euro, che diverranno 1.760 nel 2013.

I manager, si sa, sono flessibili per definizione e sempre pronti a viaggiare da un capo all’altro del mondo, ma anche a trasferirsi da una all’altra delle diversi sedi aziendali. Per quest’ultima evenienza il contratto collettivo prevede una precisa disciplina che contempla, oltre all’impossibilità di trasferire il dirigente che abbia compiuto rispettivamente il 55° anno se uomo o il 50° se donna, una serie di oneri, anche di natura monetaria, in capo al datore di lavoro. Come l’obbligo di corrispondere al dirigente trasferito il rimborso delle spese cui va incontro per sé e famiglia per effetto del trasferimento stesso, nonché l’eventuale maggior spesa effettivamente sostenuta per l’alloggio dello stesso tipo di quello occupato nella sede di origine, per un periodo da convenirsi direttamente tra le parti e comunque non inferiore a due anni, oltre ad una indennità una tantum pari a 3 mensilità e mezzo di retribuzione per il dirigente con carichi di famiglia ed a 2 mensilità e mezzo per il dirigente senza carichi di famiglia. Qualora, poi, il dirigente non intenda trasferirsi, può optare per la risoluzione del rapporto di lavoro; in tale caso avrà diritto, oltre naturalmente al TFR maturato, ad un trattamento pari all’indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento (da 8 a 12 mesi a seconda dell’anzianità) e ad una indennità supplementare al trattamento di fine rapporto pari ad 1/3 del corrispettivo del preavviso individuale maturato.

Sempre in tema di licenziamento, come è noto, ai dirigenti non si applicano i criteri identificativi della giusta causa o del giustificato motivo previsti dalla legge 604/66; conseguentemente l’illegittimità del licenziamento del dirigente nel settore privato non dà diritto al reintregro ma al pagamento delle indennità previste dalla contrattazione collettiva.

Il contratto dei dirigenti industriali stabilisce che in caso di licenziamento ingiustificato sia riconosciuto al dirigente un corrispettivo pari a 20 mensilità. È inoltre stabilita una quota aggiuntiva a favore dei dirigenti con età compresa tra i 50 ed i 59 anni e precisamente: 7 mensilità in corrispondenza del 54° e 55° anno compiuto, 6 mensilità in corrispondenza del 53° e 56°, 5 mensilità in corrispondenza del 52° e 57°, 4 mensilità in corrispondenza del 51° e 58°, e 3 mensilità in corrispondenza del 50° e 59°. Rischia insomma di costare cara – almeno 20 mensilità – la scelta aziendale di puntare su un dirigente che si rivela inadeguato al perseguimento della mission affidata. Tanto più che il periodo di prova è inserito raramente nei contratti dei dirigenti e comunque non può essere superiore a 6 mesi: un tempo decisamente breve perché il datore di lavoro comprenda di aver affidato l’azienda o un ramo di essa nelle mani giuste.

Anche questo non fa che confermare come sia difficile immaginare una più spiccata propensione delle piccole-medie imprese ad investire in figure manageriali, in assenza di un cambio di rotta anche sulla contrattazione dei dirigenti. A meno che Confindustria non voglia continuare a sostenere che la battaglia della competitività e per aumentare la produttività di un sistema produttivo imperniato sulle PMI si giochi sull’abolizione dell’articolo 18. E non anche sull’ammodernamento dell’obsoleto impianto contrattuale sui dirigenti, ad esempio allungando decisamente il periodo di prova, facendo pesare maggiormente il raggiungimento dei risultati nella retribuzione, contenendo i costi aziendali almeno nella prima fase del rapporto, introducendo meccanismi di accesso graduale ai diversi benefit, favorendone così in definitiva la circolazione e dunque il loro l’utilizzo. In altre parole, mutuando esperienze e modelli largamente praticati all’estero, a cui giustamente Emma Marcegaglia puntualmente si richiama, ma fino ad oggi con riferimento ad operai ed impiegati, per reclamare relazioni industriali più moderne.

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