“Il welfare è morto ma ne abbiamo ancora più bisogno”

“Il welfare è morto ma ne abbiamo ancora più bisogno”

La globalizzazione vista oggi: quali benefici ci ha portato?
Non parlerei di benefici per noi, ma per i paesi emergenti del mondo. Non per l’Europa: l’Europa ne ha tratto sicuramente minori benefici. I beneficiari maggiori sono stati i BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. La globalizzazione ha permesso l’ascesa di aree del mondo che prima erano ai margini dei processi di sviluppo economico. Ha portato vantaggi anche a noi come consumatori, certamente: abbiamo un’infinità di prodotti, a cominciare dall’elettronica, e dal mercato creato dalle capacità produttive dell’Asia. Come produttori, ci si pone serie domande, perché, certamente, l’Europa del futuro non sarà probabilmente ricca com’è stata l’Europa della seconda metà del Novecento.

Possiamo parlare di declino dell’Europa?
Non parlerei di declino, ma di ascesa delle nuove potenze economiche. Abbiamo trovato dei soggetti del mondo che sono in grado di correre più in fretta di noi. È cambiata la velocità e il numero di concorrenti: ciò determina per l’Italia e l’Europa delle condizioni difficili. Non è tanto una consunzione dell’Europa, perché non è così (basti pensare alla Germania che ha mantenuto la sua potenza produttiva e commerciale). I paesi oggi appaiono in difficoltà: basti pensare a cosa sta succedendo in queste settimane nel settore dell’auto, con 7mila esuberi annunciati dalla Peugeot in Francia, paesi che prima non avevano mai avuto di questi problemi e che ora vedono aumentare il peso dei mercati asiatici.

Dal punto di vista politico, non le sembra che il protezionismo stia diventando un motto trasversale tra le forze in campo? La questione è: se da una parte si chiedono maggiori protezioni e dall’altra una continuità con l’integrazione dei mercati mondiali, si può intravedere una “terza via” nel modello di sviluppo? C’è effettivamente ancora una volontà di portare avanti un modello di mercato globale?
C’è una domanda di protezione direi più sociale che economica, cioè di alcuni gruppi sociali che vedono messa a repentaglio la loro posizione economica sul mercato È una domanda più di tutela che di protezione. Il protezionismo, mi sembra, è uscito largamente dal dibattito, però questa rimane una domanda che esiste in tutti i paesi di antico e tradizionale sviluppo, quei paesi investiti dalla globalizzazione; si tratta, però, di dare risposte che non possono essere, diciamo così, di tipo tariffario. Piuttosto, ci deve essere un’opera di accompagnamento da parte delle istituzioni pubbliche che aiutino questa trasformazione sociale, che sorreggano i soggetti sociali in questa transizione molto difficile. Per questo, io non vedo tanto la difesa di produzioni che non sono più sostenibili ma penserei più ai soggetti sociali che non possono essere lasciati alla mercé dello sconquasso del sistema.

L’economia, intesa come scienza economica, non ha lasciato troppo da parte le dinamiche sociali, politiche, demografiche che si stanno rivelando ora forze centrifughe della globalizzazione? E poi che futuro c’è con un Occidente investito dalla crisi, il Medio Oriente trasformato in una polveriera e l’Asia in forte crescita?
Ci vuole un nuovo modello di governance. Questa globalizzazione che abbiamo conosciuto dagli anni Novanta, a oggi non ha finora espresso un modello di governance, una governance istituzionale. Poi, come dicono i professori Amato e Fantacci, manca una governance globale monetaria: a oggi le monete esistenti non sono in grado di reggere questa situazione. Il dollaro non è più la moneta globale, l’euro non è mai riuscito a crescere e notiamo le difficoltà in cui si dibatte ancora oggi per assicurare la sua continuità di vita. Servirebbe davvero una moneta di riferimento internazionale. Se non partiamo da questa esigenza, secondo me, è difficile approdare a una situazione di maggiore stabilità. Significa anche che in questo processo di governance, imprese dovranno avere un ruolo di rilievo. Per venire alla scienza economica, ha trascurato un po’ tutto questo. Cioè, si è concentrata meno su questioni di macro-scenario che sono, secondo me, centrali. Bisognerebbe, quindi, riprendere a domandarsi sui grandi problemi che consentono di ridurre i conflitti che la globalizzazione pone in atto.

Che tipo di conflitti?
I conflitti sono di vario ordine. Ci sono i conflitti monetari, la guerra delle monete. Ci sono i conflitti causati dalle tensioni tra le aree emergenti, tra le nuove economie e le vecchie economie consolidate (vediamo le tensioni Stati Uniti-Cina, ad esempio). Ci sono poi le tensioni dei paesi che ancora non hanno deciso che strada intraprendere, che strada battere. C’è l’Europa, poi, che dopo aver marciato per anni in direzione dell’integrazione, di fronte alla crisi ha dato un grande colpo di freno. Per riassumere, sono conflitti di vario tipo, al tempo stesso locali e mondiali. L’epoca della globalizzazione è un’epoca intrinsecamente conflittuale. Questi conflitti non possono essere lasciati a se stessi e abbandonati alla propria dinamica interna, che potrebbe diventare esplosiva. Da qui la necessità di ripensare a un ordine mondiale come non è stato fatto in questi anni. Perché non è stato fatto? Per tanti motivi, non per ultimo l’insorgere del terrorismo internazionale. Ma tutto questo ha spostato l’attenzione su grandi problemi che non possono essere affrontati fuori dalla ricostruzione dell’ordine mondiale.

Vedendo la dinamica storica ed economica dell’Europa, che direzione sta prendendo il continente?
Al momento siamo in una situazione di totale indeterminazione. Dopo l’Europa del rigore e dell’austerità di questi tempi dobbiamo guardare alle prossime elezioni per capire quali scelte verranno prese: la Francia tra pochi mesi, la Germania nel 2013… Cambieranno o no le ultime decisioni dell’Europa? A mio avviso, non si può più restare così. Bisogna decidere se andare avanti nell’evoluzione europea e, se sì, come. Oppure rivedere radicalmente questo patto che così com’è non funziona: è insufficiente, e il suo cattivo funzionamento dipende in una certa misura diretta da questa sua insufficienza.

Dal punto di vista sociale ed economico, cosa manca?
Draghi ha detto che bisogna ripensare il modello sociale europeo, e probabilmente è vero. Bisogna vedere se ripensare nel senso di destrutturarlo completamente, o se metterci mano e modificarlo. Io penserei seriamente a ridefinire il modello sociale europeo in positivo, proprio per i problemi che ho elencato prima. I traumi sociali che provocano i cambiamenti economici hanno bisogno di tutela e di accompagnamento. Io credo che questa sia una priorità, cioè ridefinire le forme di welfare, ridefinire le politiche del lavoro e del sostegno sociale, degli ammortizzatori di cui si parla tanto: deve emergere complessivamente un nuovo profilo. Adesso siamo tutti d’accordo a dire che quello vecchio o non va bene o va rivisto, ma è necessario declinare in positivo questo nuovo modello.

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