Pasolini e il film mai fatto su Papa Giovanni XXIII

Pasolini e il film mai fatto su Papa Giovanni XXIII

Novant’anni fa, il 5 marzo 1922, nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Forse è retorico chiedersi – a distanza di così tanto tempo, in un’Italia come la nostra – che cos’altro ci avrebbe regalato quest’uomo fragile e forte se quella notte di novembre in cui fu ucciso all’Idroscalo di Ostia non ci fosse mai stata. Dal bianco e nero movimentato del filmato dei suoi funerali, la voce di Moravia – per molti, all’epoca, intellettuale noioso e annoiato – ritorna oggi carica di una disperazione strana, inconsueta, una sorta di lamentazione urlata che giunge fino a noi.

Abbiamo perduto il diverso e il simile. Abbiamo perduto un uomo coraggioso, molto più coraggioso di tanti suoi concittadini e coetanei. Abbiamo perduto un testimone diverso. Egli cercava di provocare delle reazioni attive e benefiche nel corpo inerte della società italiana. Poi abbiamo perduto anche il simile. Si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, registi. Era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini nelle sue file. Abbiamo perso innanzitutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo!

Si sa, Pasolini è stato un poeta, e molto altro. Era un umanista, come poteva esserlo stato Leonardo, con una concezione unitaria del sapere e del mondo. Antico eppure contemporaneo. Gettato col suo corpo nel corpo della storia. Era un uomo planetario, per usare una definizione di un uomo di Chiesa scomodo, padre Ernesto Balducci. Un uomo in anticipo con i tempi. Soprattutto, Pasolini era un amante della Vita, nelle sue molteplici forme. E, come la sua opera, la sua esistenza e il suo amore, assetato di giustizia ed eternità, in questo divenire quotidiano, contraddittorio e precario, resta incompiuto.

È il 1971, Pasolini sta girando Decameron. Ma non è contento e arriva a stravolgere la sua stessa sceneggiatura. Quella scena in cui è protagonista Giotto che sorride contemplando la sua opera finita, non si farà. Ha deciso: non più il maestro Giotto, ma un suo allievo. Sarà lui stesso a interpretarlo. Ripreso con il bicchiere in mano, le spalle nude, in disparte, Pasolini ammira la parte di muro non affrescata e osserva: Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?

Romanzi non finiti, come Petrolio o Amado mio, studi, suggestioni, lavori censurati, appunti per film mai realizzati o mai terminati, la produzione pasoliniana è vasta, anche quella interrotta. Nel 1965 comincia una serie di ricerche per un libro o un documentario su Papa Giovanni XXIII, sulla scia del recente film di Ermanno Olmi, E venne un uomo. Figura che molto aveva colpito il regista, se, già un anno prima, nei titoli di testa del Vangelo secondo Matteo, compariva la dedica «alla cara, lieta, familiare figura di Giovanni XXIII».

Parliamoci chiaro: è lo stesso Pasolini che arriverà a definire la Chiesa «una storia di potere e di delitti di potere […] per quanto riguarda gli ultimi secoli, una storia di ignoranza». A cui non importa niente di un’istituzione che descrive come conservatrice, autoritaria, anti-evangelica. Come del resto, non gli importa niente dell’ideologia comunista. È lo stesso Pasolini, accusato di vilipendio della religione in tribunale e giudicato populista da critici organici come Asor Rosa. Mal sopportato da gran parte del Pci, come dalla Democrazia Cristiana. Un intellettuale libero che però – a differenza di tanti altri – intuisce l’importanza di un nodo centrale, forse inscindibile, all’interno della società e della cultura dell’Italia: cristianesimo e marxismo.

Nel 1965 – il Papa buono era morto nel 1963 – si chiudeva il Concilio Vaticano II. Erano stati anni di grande apertura e speranza di rinnovamento all’interno del mondo cattolico e non solo. E ancora viva era l’impressione delle parole di Roncalli, che la sera dell’apertura del concilio, l’11 ottobre del 1962, aveva pronunciato il famoso discorso alla luna.

Giovanni XXIII, figura insolita, aveva senz’altro facilitato anche l’incontro di quel gruppo di cattolici e comunisti che avevano dato vita all’esperimento del dialogo alla prova. Un gruppo di cattolici e comunisti, guidato dall’intellettuale fiorentino Mario Gozzini, che, in notevole anticipo sui tempi del compromesso storico, aveva iniziato a criticare quel ragionare tutto italiano per blocchi contrapposti, causato dalla Guerra Fredda e da anni di chiusure ideologiche e culturali. Un incontro di esperienze che avrebbe dato i suoi frutti: appena qualche anno dopo sarebbero iniziate, anche grazie al pungolo dei diversi fautori di questo dialogo, anche cattolici critici, le prime battaglie per il diritto di famiglia, il divorzio e la regolamentazione dell’aborto. Un tentativo di condivisione che rimaneva fedele al percorso comune intrapreso per la nascita della Costituzione, non dimentichiamolo.

L’11 febbraio 1965, Pasolini scrive a Lucio Lombardo Radice questa lettera, oggi contenuta nel fondo personale del matematico comunista presso la Fondazione Gramsci di Roma:

Io vorrei solo aggiungere che di fronte alle infinite possibilità di scelta di interventi su papa Giovanni XXIII, avrei deciso di fondare le mie ricerche, almeno come primo tentativo, sul “dialogo alla prova” che mi è sembrato il documento più concreto e più sincero del nuovo corso dei rapporti privati fra comunisti e cattolici. Vorrei insomma avere da voi dieci, autori del dialogo, delle ragioni per cui papa Giovanni può considerarsi il fondatore di tale dialogo. Si tratterebbe per voi di aggiungere un allegato al vostro saggio, e magari per dare una certa unità pretestuale all’insieme delle ricerche, tenendo un po’ conto di quelle mie due paginette che Gambetti vi ha fatto avere; alla fine sempre per una certa esigenza di unità, io vorrei qualche conclusione. Mi scuso molto per questo curioso modo di indirizzarmi collettivamente per questo includervi in un voi, che spero vi suoni più simpatetico che impersonale. E mi scuso anche per questa mia pretesa di collaborazione un po’ ricattatoria…se il riferimento è a un nostro comune interesse così totalmente disinteressato. E tenete conto che l’iniziativa di queste ricerche ha senso solo se tutti voi avrete aderito.

La risposta dello scrittore Mario Gozzini in una lettera altrettanto sconosciuta del 18 marzo 1965 è significativa:

Non ho bisogno di dirle che sono sostanzialmente d’accordo sul fondo della sua proposta. Ma, dopo averne parlato con gli interlocutori del ‘dialogo’ che risiedono a Firenze, devo esprimerle qualche riserva. Ci sembra per lo meno discutibile il voler stabilire un rapporto diretto tra papa Giovanni e il nostro ‘dialogo’. Nessun dubbio che un rapporto esista: ma, da tutti i punti di vista, riteniamo storicamente inesatto, oltre che sconveniente, prospettare il tema cattolici-comunisti sullo sfondo delle grandi trasformazioni in atto nella Chiesa, trasformazioni delle quali papa Giovanni è stato l’eccezionale catalizzatore, ma non il determinante esclusivo. Le ho espresso con franchezza l’opinione mia e degli amici che ho potuto consultare. Mi è gradita questa occasione per esprimerle la mia sincera stima per la sua opera.

Pasolini intuisce la forte carica simbolica racchiusa nel pontificato e nella personalità di Roncalli, nel suo umorismo e nella sua leggerezza. Una caratteristica che egli intende rivoluzionaria e anti-autoritaria, un’assoluta novità per la Chiesa di quei tempi. Così come intuisce la portata innovativa dell’esperimento fra gli intellettuali del dialogo. Un esperimento che avrà le sue evoluzioni, ma che tuttavia rimarrà marginale rispetto al corso della storia politica e culturale italiana. Anche questa, una delle tante storie italiane interrotte…

C’è da chiedersi che cosa sarebbe accaduto se l’autore de L’usignolo della Chiesa Cattolicae de Le ceneri di Gramsci avesse raccontato in un film la parabola di Giovanni XXIII. Se avesse reso visibile e fruibile, con la forza e la chiarezza della poesia, ciò che stava accadendo nelle elaborazioni di pochi ad ampie masse di italiani? Quel messaggio di apertura di una parte della Chiesa al mondo, alla società, ai laici. Quella volontà di parte del mondo laico e non credente di comprendere l’altro diverso da sé. Cosa sarebbe stato se quegli intellettuali del dialogo non fossero stati presi, come fanno spesso gli intellettuali onesti, da doverose distinzioni e cautele? Se queste intuizioni non si fossero perse per strada, ma avessero continuato a vivere nell’immaginario di questo Paese?

Quanti anni sono passati? Pierpaolo oggi avrebbe novant’anni. Ora che di poeti e intellettuali veri ce ne sono pochi, sembra strano persino il suo ricordo. Chi se lo ricorda più? In un’Italia come la nostra, nacque Pierpaolo Pasolini, che faceva presto a sognare un’opera, ma ha fatto presto anche a lasciarci. 

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