Pochi sanno che l’Italia ha avuto il suo daffare di “grande potenza europea” anche in quel celeste inferno che fu ed è ancora, per molti versi, la Cina. E che marinai italiani sono morti con armi di soldati in pugno combattendo entro le mura di Pechino e Tien-Tsin. In realtà non fu un affare da esportatori d’oppio né da conquistatori e colonizzatori come accadde per i britannici, in primo luogo, ma anche per gli americani, i francesi e perfino giapponesi, cioè a dire l’insieme da cui era composto il famigerato corpo di spedizione che i primi del 1900 mise in fuga i ribelli “boxer” cinesi da Pechino, aprendo la strada a quel processo di globalizzazione che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso e che viviamo tutt’oggi.
Il 31 dicembre 1899 il reverendo Sidney Brooks, missionario inglese in Cina, veniva assassinato dai boxer nella provincia di Shandong, suscitando l’indignazione e poi la conseguente reazione di orgoglio occidentale. Da allora l’Italia fu presente, con qualche unità di marina, agli sconvolgimenti della lotta politica cinese, come dimostra un prezioso e antico volumetto dell’Ufficio storico della Marina italiana, dal titolo L’opera della Regia Marina in Cina, edito da Vallecchi nel 1935, sulla base dei rapporti che i comandi navali succedutisi nelle acque cinesi facevano pervenire al ministero. Il motivo? In piena età liberale pre-fascista, affermare il proprio prestigio di nazione di razza “bianca” dinanzi alle civiltà orientali sottosviluppate.
È proprio vero che i tempi cambiano. Il 16 febbraio 2012 il quotidiano Il Tempo pubblicava un lungo articolo dal titolo Dal Golfo di Aden all’India: l’arrembaggio dei pirati fermato dai marò a firma dell’ex generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e geopolitica, ex consigliere del Presidente della Repubblica Cossiga, che illustrava come una squadra di fucilieri della Marina militare fosse stata intelligentemente imbarcata sulle navi italiane a protezione dei pirati. Il giorno seguente due di questi marò del Battaglione San Marco, imbarcati su una petroliera, scambiavano per pirati dei pescatori indiani a caccia di tonni e li uccidevano.
Ora, il punto è che l’India non è, com’era la Cina d’inizio secolo, una semplice nazione in via di sviluppo, ma un paese il cui Pil cresce, da dieci anni a questa parte, ad una media del 7% (contro i dati che parlano di una contrazione nell’ultimo trimestre 2011 del pil italiano dello 0,7%), e che è passato nella classifica dei paesi più forti economicamente dal cinquantaquattresimo posto del 2003 al decimo del 2011. È scoppiato subito, come c’era da aspettarsi, un caso diplomatico delicatissimo. I due militari italiani, portati in Kerala, venivano prima arrestati, tratti in stato di fermo, e poi, dopo qualche giorno, condotti in una sorta di villaggio-carcere. Nelle trattative per la liberazione è stato coinvolto anche il Vaticano, ma per adesso senza grandi risultati. La vicinanza delle elezioni indiane hanno trasformato la vicenda in un mezzo di pressione pesante da parte degli elettori nei confronti del nazionalismo del governo. Nazionalismo da pezzenti, ha chiosato qualcuno. Sì, vero, ma non molto diverso dal colonialismo da pezzenti che mettemmo in atto noi italiani in Africa all’inizio del secolo.
Gli interessi economici costituiti dalle forniture dell’industria militare italiana (in particolare una partita di caccia dell’aeronautica) alle Forze Armate indiane rappresentano un altro chiaro elemento che condiziona la trattativa. Molti pensano che la diplomazia, alla fine, avrà la meglio, per cui grazie a uno sconto sulle armi e alle scuse formali, i militari verranno rilasciati e si eviteranno processi e carcere in India. In realtà la partita che si gioca va ben oltre il caso specifico, ed è collegata al discorso di partenza: all’inizio del secolo i soggetti attivi di storia e di crescita erano le nazioni occidentali; oggi sono le tigri asiatiche a dettare i tempi e i modi dello sviluppo economico-finanziario. E si sa benissimo che democrazia e giustizia sociale, da che mondo e mondo, si piegano sempre al potere economico.