Succede che ogni settimana il grande Carlìn Petrini, che Wikipedia riduce malinconicamente a «gastronomo», racconti su Repubblica di un suo viaggio sentimentale, in cui si mischiano consigli e passioni assolutamente personali. Quando i sentimenti assolutamente personali diventano patrimonio più collettivo, allargandosi per cerchi concentrici, il significato minimo che possiamo attribuirgli è che quel soggetto mantenga in sé una forza fuori dal comune. Che questa attitudine viri verso il bene o piuttosto verso il male, lo deciderà poi la vita. Nel caso di Petrini, il bene ha decisamente trionfato, con la nascita dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, del Salone del Gusto, e poi di Terra Madre, forse la summa di tutte queste esperienze.
Parlando di Petrini, alcuni scomodano la parola «guru», che – parere personale – non è bellissima. Il guru presuppone un suo popolo adorante, al quale farebbe difetto una vera e propria autonomia di giudizio, appiattendosi per definizione sulle posizione del maestro. Petrini probabilmente lo sa, ma insomma la sua storia è anche un po’ straordinaria e dunque spero metterà nel conto (ironico) dell’esistenza anche la fatica d’essere considerato un saibaba nostrano.
Noi, che pure gli vogliamo un gran bene, cerchiamo comunque di rimanere sereni quando Petrini indica un luogo di decenza gastronomica dove mettere insieme cibo e umanità. Lo facciamo per un innato senso di conservazione, che dovrebbe presiedere a qualunque giudizio sulle cose viste, provate, mangiate, bevute, assaggiate, etc.
L’ultima settimana si è esercitato su Roma, città particolarmente difficile sul piano dell’offerta gastronomica, e sulla cucina romana, indicando due luoghi, uno dei quali da noi immediatamente testato come illimitata apertura di credito nei confronti del maestro. Dobbiamo testimoniarvi di una delusione cocente, di un servizio ai limiti dell’incapacità, di un valore del cibo provato molto al di sotto (ripetiamo: molto al di sotto) di quanto il buon Carlin ci avesse preannunciato.
Ma non è questo il punto. Il punto è che, uscendo dal ristorante, l’amico Massimiliano Gallo ha posto a uno dei soci una domanda diretta e opportuna: «Da quando Petrini ha scritto di voi, avete aumentato il fatturato?» La risposta è stata semplice quanto sconvolgente: «Nei giorni successivi è arrivata una fiumana di gente», facendo intuire che era interamente riconducibile a quella critica positiva sul giornale.
Il che vorrebbe significare due cose. La prima è che il popolo di Petrini esiste, e lo diciamo con simpatia, facendone parte in maniera fortunatamente critica. La seconda, molto più importante e significativa, è che Petrini è addirittura in grado di condizionare (economicamente) il mercato, una vera e propria alterazione inconsapevole della concorrenza, in virtù dell’autorevolezza guadagnata negli anni. La possiamo considerare comunque una buona conclusione, anche se quel ristorante non si è rivelato per nulla all’altezza della critica ricevuta?
Naturalmente Petrini non fa guide gastronomiche, né recensioni, né può essere accusato di avere interessi diversi da quello del semplice racconto sentimentale. E i sentimenti alle volte possono portarti anche a sbandare un attimo. Ma questa piccola storiella non può non condurci in quella terra infernale in cui convivono non sentimenti, bensì, appunto, interessi. Interessi economici. È la terra delle guide, del cibo e del vino, è la terra che tutti noi calpestiamo quotidianamente in cerca di un riparo decoroso, che metta insieme attenzione al prodotto e relativo prezzo giusto. Se una persona come Petrini, in una sua rubrica laterale su Repubblica, è in grado di portare in un ristorante «una fiumana di gente», cosa dobbiamo pensare di chi se ne occupa per mestiere? E soprattutto: a quali doveri di onestà intellettuale dovrebbe scrupolosamente attenersi?
Quando si parla di guide, la puzza di marchetta è sempre dietro l’angolo. Troppe volte in passato, per seguire il tizio o il caio che pontificava di cibo, ci è toccato di vivere esperienze mortificanti, al limite dell’indecenza. Per cui, negli anni, ci siamo formati nella consapevolezza che, nel comparto eno-gastronomico, il gioco è parzialmente truccato. E a nulla servono quegli sfogatoi internettiani, in cui le critiche arriverebbero «dal basso» e sol per questo più genuine. È sin troppo facile taroccarle, e studiosi della materia ne hanno anche individuato i segnalatori, partendo proprio dal lessico degli interventi.
Mangiare bene è sempre più complicato, e gli “aiutini” esterni, ancorchè troppo interessati, cominciano a diventare un fardello insostenibile. Per non sbagliare serve un po’ di naso, un poco di attenzione in più, un poco di sensibilità in più, magari qualche amico sincero e di libero pensiero. Già, ma tutto questo vale anche per la politica…