Quattro detenuti su dieci attendono giudizio, e spesso sono innocenti

Quattro detenuti su dieci attendono giudizio, e spesso sono innocenti

Quando i carabinieri bussano alla sua porta, Victor dorme già da quattro ore. Filippino, in Italia da pochi mesi e senza permesso di soggiorno, non conosce una parola d’italiano. Fa solo in tempo ad annuire con la testa, davanti ai militari che pronunciano il suo nome. Nel giro di un’ora, si ritrova in caserma. Nel giro di sei, nel carcere di San Vittore. Lì, accusato aver sequestrato e tentato di uccidere la sua compagna, trascorre quasi due anni di carcerazione preventiva. Ma Victor, quel reato, non l’ha mai commesso. La verità viene fuori in sede di processo: la colpa è di un banale errore di traduzione.

Marco, invece, operaio di Roma, deve la sua sfortuna al suo nome. Accusato di aver aggredito tre studenti con un’ascia, durante una rapina, trascorre un anno a Regina Coeli. Un suo omonimo, infatti, assomiglia come una goccia d’acqua al vero responsabile. Ma la polizia, sbagliandosi, arresta lui.

E poi c’è l’egiziano Mahmoud. I carabinieri non hanno dubbi: ha gettato un giovane romeno sotto un treno, perché l’aveva preso in giro mentre pregava Allah rivolto verso La Mecca, nel piazzale della stazione San Cristoforo a Milano. Mahmoud sconta un anno di carcere e un altro in un ospedale giudiziario: il suo processo viene rinviato continuamente. Anche stavolta è nella fase dibattimentale che la verità viene a galla: non c’è stato nessun omicidio. Il giovane romeno è finito sulle rotaie durante una rissa con altre persone, dopo aver perso l’equilibrio.

Ci avevano provato Alberto Sordi e Nanni Loy, nel lontano 1971, a raccontare, nel film-capolavoro “Detenuto in attesa di giudizio”, un esempio di “limbo” all’italiana, con la storia kafkiana del geometra romano Giuseppe Di Noi, intrappolato nelle maglie della giustizia e poi, da quelle stesse maglie, annientato. Oggi, 41 anni dopo, la situazione non è cambiata. Alcuni entrano ed escono nel giro di pochi giorni, ancora prima della convalida dell’arresto. Altri, invece, nel carcere, trascorrono anche lunghi mesi o addirittura anni, in attesa del processo, rimandato a causa di continui rinvii e vizi procedurali. Molti di loro sono innocenti.

I dati parlano chiaro: su un totale di 66mila 632 detenuti rinchiusi nei 206 istituti di pena italiani, sono quasi 30mila quelli in attesa di giudizio. Una quota altissima pari al 42 per cento. Tredicimila di loro sono in attesa del giudizio di primo grado e in molti sono quelli che entrano ed escono nel volgere di pochi giorni. Una fotografia nera scattata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, oggi diretto dall’ex pm antimafia Roberto Piscitello. «Molti dei detenuti che transitano dalle nostre carceri – dice Piscitello – spesso entrano ed escono prima di una condanna».  Si trovano all’interno di una fase, infatti, che può durare da pochi giorni a lunghi mesi, che va dalla mancata convalida dell’arresto fino a una probabile assoluzione di primo grado. Ma, con la loro presenza in carcere, impegnano agenti, risorse e contribuiscono al sovraffollamento.

Dall’immatricolazione del detenuto al momento della libertà in caso di mancata convalida, che può avvenire entro 4 giorni (sono esattamente 96 le ore previste dalla norma), la prigione è comunque impegnata. «A volte nelle carceri – spiega Piscitello – si vedono detenuti che entrano ed escono nel volgere di un’ora». Poi ci sono casi, come il carcere di Regina Coeli, dove il flusso quotidiano di reclusi in entrata è in media di 100: il 70% è destinato a uscire entro tre giorni, ma agenti e strutture sono impegnate come se questi 100 dovessero stare dentro più a lungo. Ecco perché l’accorciamento dei tempi per arrivare alla convalida dell’arresto e l’uso di strutture alternative alla cella per la custodia cautelare potrebbe portare un sostanzioso beneficio al sistema penitenziario. Anche sul versante dei costi. Un’emergenza, questa, su cui ha posto l’accento anche il ministro della Giustizia Paola Severino, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario: «Nelle carceri ci sono troppi detenuti in attesa di giudizio: il costo sociale delle inefficienze della giustizia è pari a un punto del Pil». Sempre secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel 2011 ogni recluso è costato allo Stato italiano mediamente 112,81 euro al giorno.

Di storie di detenuti in attesa di giudizio che si sono rivelati innocenti durante la fase processuale, poi, i Tribunali sono pieni. Ma passano inosservate, relegate a poche righe nelle cronache locali. Come, appunto, quella che ha per protagonista l’egiziano Mahmoud El Gharib, arrestato due anni fa con la pesante accusa di omicidio volontario. A denunciare il clamoroso errore giudiziario, sono gli avvocati Manuel Galdo e Angelo Pagliarello. Mahmoud, ritenuto il colpevole certo di quello che poi, alla fine, si è rivelato un “non-omicidio”, ha scontato settecento giorni di carcere. I carabinieri – sostengono oggi i suoi legali – gli avevano persino attribuito una confessione che in realtà non c’era mai stata. «Il nostro assistito – raccontano oggi – aveva semplicemente evidenti problemi espressivi». O come quella di Hassan Abdalla, egiziano di 35 anni, accusato di aver assassinato la compagna incinta, perché non voleva che tenesse il bambino. Abdalla, che si era sempre professato innocente, è stato alla fine assolto un anno fa in Corte d’Appello dopo cinque anni di carcere.

Spiega oggi il suo difensore, l’avvocato penalista Corrado Limentani: «La Procura non aveva dubbi che il colpevole fosse lui, hanno concentrato le indagini a senso unico fin dal primo momento. E ha passato cinque anni della sua vita in una cella. Alla fine il vero colpevole non è mai stato trovato». Ed è stato “dimenticato” in carcere, invece, per quasi due anni, il cubano Federico Gandoz, arrestato con l’accusa di aver violentato la ex compagna italiana, che lo aveva fatto arrivare in Italia e che lo stava ospitando a casa sua. Difeso da un legale d’ufficio, Gandoz vedeva, a causa di continui rinvii, la data del suo processo allontanarsi di mese in mese. Alla fine, nel penitenziario di Monza, è rimasto 650 giorni. Durante il processo di primo grado, la verità: quella violenza, in realtà, non c’era mai stata. La denuncia era stata solo una vendetta da parte della sua ex. Vendetta riuscita, grazie alla giustizia italiana.

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