Sostiene VoltolinaSe potessi avere 1000 euro al mese: Italia sottopagata

Se potessi avere 1000 euro al mese: Italia sottopagata

I liberi professionisti «veraci» sono sempre più rari. La nuova frontiera della flessibilità selvaggia è infatti rappresentata da quell’esercito di persone – in prevalenza giovani – che vengono implicitamente o esplicitamente costrette a figurare come autonome. Cosa ci guadagna il datore di lavoro? Innanzitutto, la possibilità di disfarsi del collaboratore in tempi brevissimi, di slacciare la fune che lo lega alla barchetta, qualora si accorga di poter fare a meno di lui o sostituirlo con qualcun altro. Inoltre, il lavoratore autonomo non essendo classificato nemmeno temporaneamente come dipendente nulla può chiedere al committente per quanto riguarda ferie, malattie, maternità: sono affari suoi. Così come per la continuità e la congruità del reddito: trovare uno o più datori di lavoro che garantiscano compensi dignitosi, e non avere buchi di inattività troppo grossi, sono i problemi principali di chi lavora in modalità autonoma. Insieme alle tasse: il dipendente praticamente nemmeno le considera, in quanto il suo datore di lavoro provvede a tutto trattenendo in busta paga il dovuto e funzionando da sostituto d’imposta. Mentre per gli autonomi è uno degli impegni più gravosi, che comporta come corollario anche una congrua spesa annuale per un commercialista.

Vi sono tanti modi per mettere in atto la transizione da lavoratore dipendente (o aspirante tale) a lavoratore autonomo: il più frequente è la richiesta di aprire una partita Iva. Alla scoperta di questo mondo si può partire sulla scorta della più recente e approfondita ricerca sull’argomento, realizzata dall’Ires, l’Istituto per la ricerca economica e sociale fondato trent’anni fa dalla Cgil (su iniziativa di Bruno Trentin, Giuliano Amato e Vittorio Foa) come osservatorio del mercato del lavoro. Le rilevazioni alla base del rapporto Professionisti: a quali condizioni? hanno coinvolto nel 2011 quasi 4000 persone, nell’80 per cento dei casi laureate, età media 42 anni, attive nei settori professionali più diversi: avvocati, commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, esperti di marketing, grafici, geologi, psicologi, musicisti, pubblicitari, organizzatori di eventi, senza naturalmente farsi mancare il folto sottobosco del settore media e comunicazione composto da illustratori, giornalisti, fotografi, addetti stampa, ecc. Poiché oltre il 70 per cento di questi professionisti lavora ‘a partita Iva’, il rapporto è sostanzialmente una radiografia della condizione di questi lavoratori, delle modalità con cui operano. Una lastra che risulta però costellata di addensamenti preoccupanti, cui si possono dare essenzialmente due nomi: sottoretribuzione e subalternità. 

Ma prima di tutto una domanda: quante sono le partite Iva – e, soprattutto, quante di esse sono false? Si tratta chiaramente di un «popolo variegato e complesso», come lo definisce Davide Imola, responsabile Professioni della Cgil, nell’introduzione al Rapporto: «In Italia ci sono 8.800.000 posizioni Iva aperte. Di queste, circa 6.500.000 sono attive e sono suddivise tra un milione di società di capitale, più di un milione di professionisti, oltre un milione d’artigiani e commercianti e tre milioni e mezzo di professionisti non regolamentati con attività individuale. Ogni anno si aprono circa 200 mila nuove partite Iva mentre, secondo l’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione dei Lavoratori), le false partite Iva sono attorno alle 400 mila unità». Se poi una delle caratteristiche principali dei liberi professionisti è l’autonomia – essere cioè i padroni di se stessi, svincolati da rapporti di subordinazione –, non può che suonare come un campanello d’allarme il fatto che oltre un quinto di essi lavori per un unico committente abituale, mentre un altro terzo ha più clienti tra cui però ne spicca uno principale. Non è difficile intuire, infatti, che rapporto di forza si possa instaurare tra un professionista e un cliente consapevole di rappresentare il 50, 70 o addirittura il 100 per cento del suo reddito.

Il rischio è che il meccanismo della contrattazione salti: a quel punto il committente detterà le sue condizioni rispetto alle tariffe, ai tempi di consegna, alle modalità di lavoro e a volte al luogo stesso dove svolgere la prestazione; e al lavoratore non resterà che accettare le condizioni imposte, per non perdere quel cliente tanto importante ai fini delle entrate e dunque della sopravvivenza. Tra i tanti aspetti interessanti messi a fuoco i due più significativi – sottoretribuzione e subalternità – emergono dalle risposte ad alcune domande specifiche, come per esempio quella sul reddito (la domanda era relativa al reddito percepito nel 2009). Quasi un quarto dei lavoratori autonomi coinvolti nella rilevazione dichiara di aver guadagnato nel 2009 una cifra inferiore ai 10 mila euro netti, il che significa meno di 833 euro al mese: una fascia al di sotto della soglia di sussistenza, assolutamente insufficiente per garantire a un adulto la possibilità di mantenersi autonomamente. Poco più di un quinto si colloca nella fascia immediatamente superiore, portando a casa tra i 10 mila e i 15 mila euro, cioè tra 833 e 1250 euro netti al mese. Qui si trovano tutti quei professionisti che facendo i salti mortali riescono a coprire le spese principali, ma che certamente non riescono a risparmiare, né a poter affrontare uscite impreviste. Stanno un po’ più comodi coloro che dichiarano di guadagnare tra i 15 mila e i 20 mila euro (1250/1670 al mese), che sono il 17 per cento del totale, a cui si aggancia un altro 18,5 per cento che porta a casa 20/30 mila euro (1670/2500 al mese).

Meno di un quinto dei professionisti gode di un vero e proprio benessere, superando il tetto dei 30 mila euro annui, 2.500 euro netti al mese. In più, da non sottovalutare è il tempo abnorme della gavetta: innanzitutto vi è uno scarto di quasi quattro anni tra il momento in cui si comincia a lavorare e quello in cui si inizia a svolgere la professione desiderata. I ricercatori dell’Ires ipotizzano che questo lungo periodo sia frastagliato e caratterizzato da esperienze spezzettate e intersecate di stage, disoccupazione, altre attività. Come se non bastasse, una volta riusciti ad entrare nel circuito della professione, si lavora gratis per quasi un anno. Quella messa peggio è l’area giuridica: gli avvocati devono aspettare addirittura 32 mesi, quasi tre anni, prima di veder riconosciuto nella dichiarazione dei redditi il valore delle proprie prestazioni professionali. Una volta partiti coi guadagni, per di più, nulla assicura che essi vadano progressivamente a incrementare, o che almeno si stabilizzino; un altro grande problema dei lavoratori autonomi è infatti proprio la continuità, e quasi due terzi negli ultimi cinque anni hanno lavorato in maniera intermittente.

I più fortunati sono quelli che alternano lunghi periodi di lavoro a pause brevi (succede al 30,5 per cento dei professionisti), ma uno su dieci dichiara pause lunghe tra un periodo di attività e l’altro, e uno su cinque ammette che lavora per la metà del tempo e per l’altra metà è disoccupato. Nel complesso, limitando il campo agli ultimi dodici mesi, dalla ricerca emerge che mediamente si lavora dieci mesi su dodici. Ma il padrone di casa per l’affitto – o la banca per la rata del mutuo – non si accontentano certo di dieci mensilità; e nei due mesi in cui non si lavora non vengono meno la necessità di mangiare, di vestirsi, di pagare la luce e la rata della macchina. In più con retribuzioni molto basse è praticamente impossibile mettere via risparmi per i periodi di magra, e quindi tanto più si protrae un periodo di disoccupazione, senza poter accedere ad aiuti statali, quanto più frequentemente i giovani (e non più giovani) professionisti si trovano costretti a bussare alla porta di mamma e papà per farsi aiutare. Oltre un terzo del campione su cui si basa la ricerca Ires ha affermato di chiedere «qualche volta» il sostegno economico della famiglia di origine, e quasi uno su cinque ha ammesso di ricorrervi «spesso».

Un altro effetto deleterio della discontinuità del reddito riguarda il futuro previdenziale: i ricercatori dell’Ires confermano che i buchi contributivi accumulati oggi creeranno a questi lavoratori problemi molto seri quando sarà per loro il momento di smettere di lavorare e cominciare a percepire una pensione. Passando all’altro grande tema, quello della subalternità, alla domanda «perché lavora in modo autonomo?» una piccola ma non trascurabile percentuale (8,5 per cento) – che sale fino al 27,3 per cento se si prendono in considerazione specificamente i ricercatori, che vivono spesso come una costrizione del datore di lavoro il loro status di lavoratori autonomi – dichiara che lo fa per esplicita richiesta del datore di lavoro. Solo il 44,9 per cento risponde «per mia scelta»; tutti gli altri invece ammettono – si potrebbe dire con rassegnazione – che «è l’unico modo di lavorare nel mercato». E ancora: un quarto dei supposti autonomi viene sottoposto a vincoli di orario, e quasi il 30 per cento deve anche svolgere il lavoro presso la sede del cliente: questi due fattori, specie se combinati insieme, fanno così decadere quell’autonomia organizzativa e logistica che dovrebbe essere propria dei lavoratori indipendenti. Insomma, il trend ormai è «ognun per sé», nel senso che ciascuno si deve arrangiare da solo, accettando di prendere su di sé tutti i rischi.

Certo nel 1998, diciottenne neoiscritta all’università, l’ultima cosa che Astrid D’Eredità pensava era che si sarebbe trovata dieci anni dopo a dover aprire una partita Iva. E invece così è stato. Originaria di Taranto, dopo la maturità classica Astrid si trasferisce a Bari per fare Lettere. Sceglie l’indirizzo classico e parte spedita, studiando dentro e fuori l’università e seguendo percorsi formativi paralleli. Nel 2003 vince una borsa di studio per un master in comunicazione a Bari: una borsa di 4.500 euro copre il costo intero della retta. Un’altra borsa di studio le permette poi di frequentare una summer school in management dei beni culturali a Firenze, dove però vitto e alloggio sono a suo carico. Nel novembre del 2004 Astrid si laurea con lode e arriva prima al concorso d’ammissione alla scuola di specializzazione in Archeologia, sempre all’università di Bari, svettando su una cinquantina di candidati. I posti disponibili sono venti: essere in cima alla lista significa poter beneficiare di una piccola borsa di studio annuale, ma quell’anno non ci sono fondi. Nel 2006 la neospecializzanda partecipa con altri colleghi, selezionati con concorso, all’organizzazione di una mostra didattica universitaria. In un anno guadagna un po’ meno di 13 mila euro, che le vengono corrisposti con assegni trimestrali. Alla fine di quello stesso anno vince una borsa di studio triennale per un dottorato in archeologia all’università Federico II di Napoli. Per il primo anno si tratta di 800 euro mensili; a partire dal secondo la somma sale a mille euro.

«Ci stavo veramente bene. Andavo a Napoli in occasione delle verifiche e delle lezioni, una volta ogni tre mesi, a volte più spesso. L’ultimo anno abitavo già a Roma e facevo la pendolare». In quell’ateneo Astrid è percepita come una outsider, il posto che ha vinto (completo di borsa, quindi più appetibile degli altri) era destinato ad un’altra studentessa interna, non si capisce bene come abbia fatto – coi suoi soli meriti – ad arrivare e dunque c’è un po’ di diffidenza. In quel periodo trascorre per conto suo due brevi periodi di studio in Germania, e uno ad Atene. In più continua a frequentare corsi di alta formazione e di perfezionamento. Accanto alla sua formazione personale, fin da studentessa Astrid porta avanti una collaborazione professionale con una cattedra universitaria, con responsabilità via via crescenti: dalla gestione di piccoli incarichi alle mansioni amministrative e organizzative, alla responsabilità sul campo della gestione di magazzini di reperti, alla redazione di testi. Tutte attività rigorosamente non retribuite. «Secondo il modus operandi universitario, una borsa di studio specie se di dottorato è la tua retribuzione. Ho visto persone costrette a lavare i vetri degli armadietti degli uffici dei professori, o accompagnare docenti dai callisti».

A questa parte di attività gratuita Astrid dedica tempo ed energia: «Spesso anche nei weekend. Era una collaborazione improntata secondo la più becera abitudine universitaria italiana, per cui qualsiasi cosa venisse chiesta dall’alto doveva essere compiuta senza discussioni». La tensione aumenta di anno in anno, i colleghi di Astrid mollano uno dopo l’altro. «Io sono stata l’ultima del gruppo ‘storico’ a lasciare, nel 2007. La situazione era ormai insostenibile, l’ingerenza nella vita privata pressoché totale». A quel punto Astrid diventa una libera professionista. «Nel 2008, su pressione di un’azienda per la quale lavoravo, ho aperto la partita Iva. Oggi collaboro con varie realtà, prevalentemente società cooperative che fungono da intermediari tra le Soprintendenze e gli archeologi per lavori di sorveglianza archeologica e catalogazione. I contratti, quando ci sono, hanno durate variabili: da pochi giorni a qualche mese». Il problema non è solo l’inquadramento, ma anche il rispetto dei ruoli: «Io ho sempre cercato di far valere la mia professionalità, ma di fatto un archeologo è visto e considerato al pari di un operaio. Pagato anche meno, talvolta». Per questo sarebbe necessaria una radicale riforma della professione, a partire dall’istituzione di un tariffario indicativo e di organismi che ne verifichino il rispetto. Perché le prospettive di reddito sono tutt’altro che rosee:

«Alcuni dei miei stessi colleghi non rispettano la propria dignità professionale accettando di percepire 40 euro giornalieri, cinque euro all’ora», punta il dito Astrid, sottolineando anche la sproporzione tra ciò che arriva al singolo archeologo e ciò che si mette in tasca la società di intermediazione: una cifra a volte quattro-cinque volte superiore. Il discorso ha una forte assonanza con quanto affermano Sergio Bologna e Dario Banfi, nel saggio Vita da freelance, all’interno del capitolo «Lavorare, a che prezzo?». I due autori mettono in guardia dall’accettare di lavorare per compensi troppo bassi: «Molti trascurano il fatto che quando si abbassa l’asticella che segna il proprio valore di mercato la si fa scendere anche per le persone che svolgono lo stesso mestiere. Mentre nel lavoro dipendente sono i contratti nazionali a definire questi limiti, nel segmento del lavoro autonomo sono i singoli professionisti a dovere interpretare un doppio ruolo, individuale e collettivo insieme». Astrid, che vive da sola da quando aveva 19 anni – con il sostegno economico dei genitori – e che da un annetto convive col suo compagno cercando di non ricorrere all’aiuto familiare, non trascura questo aspetto. Per lei il discorso dell’accesso a un’equa retribuzione è fondamentale: «Un archeologo, con tutto quel che ha studiato e che fa, dovrebbe guadagnare almeno 3.000 euro al mese. Riuscirò io mai a raggiungere una cifra del genere? Non lo so, questo è un momento di profonda disillusione, probabilmente farei meglio a cambiare lavoro. Intanto cerco di comportarmi in maniera coerente, di non accettare lavori sottopagati: mai incarichi per meno di 100 euro al giorno».

Un altro problema comune per le partite Iva è il tragico ritardo con cui le fatture vengono saldate: «Per oltre un anno sono rimasta in attesa che mi venisse corrisposto un onorario: sono riuscita ad ottenere il saldo solo dopo una telefonata del presidente dell’Associazione nazionale archeologi al debitore. Adesso inseguo una ditta tedesca per il saldo di un paio di fatture». Astrid oggi ha 32 anni, l’anno scorso il dottorato è finito e con esso anche i mille euro al mese che, nella pochezza del mercato, le garantivano un cuscinetto minimo di sopravvivenza. Cerca di non rinunciare ai traguardi nella sua vita privata, di difendere quell’indipendenza dalla famiglia di origine che le permette di sentirsi adulta. «Ma è innegabile che sia difficile poter avere un figlio, perché smetterei di lavorare. E impossibile anche solo pensare all’acquisto di una casa». Ricapitolando: un brillante giovane archeologo in Italia non trova nessuno che lo voglia assumere, è costretto a lavorare da freelance zompettando di qua e di là in cerca di lavori temporanei, e guadagna talmente poco da accarezzare l’idea di scappare all’estero: «In Europa per chi fa il mio mestiere i posti di lavoro sono numerosi e garantiscono nella maggior parte dei casi ampie tutele per sé e per le famiglie».

Questo è il colmo: nel nostro paese un archeologo fa la fame, quando i luoghi archeologici italiani – tra siti, monumenti e musei – ammontano a piu  di 2.500, con un flusso annuale di oltre 15 milioni di visitatori. Su 911 siti tutelati dall’Unesco in tutto il mondo, ben 44 – il 5 per cento – sono italiani. Nessun altro Paese ne ha così tanti, nessun altro Paese potrebbe valorizzare il suo patrimonio archeologico-culturale e contemporaneamente creare un’economia virtuosa, basata proprio sulla cura e la promozione di questo patrimonio, generando un indotto anche in termini occupazionali. Invece Astrid ha dovuto aprirsi la partita Iva, si sente proporre lavori per 5 euro all’ora, e medita di trasferirsi all’estero. © Editori Laterza

*Giornalista, fondatrice e direttore responsabile de La Repubblica degli stagisti. Questo articolo è un estratto dal terzo capitolo del suo nuovo libro Se potessi avere 1000 euro al mese. L’Italia sottopagata, 15 euro, Editori Laterza

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