Ama la musica rock, ma i concerti per lei sono solo un miraggio. È iscritta alla facoltà di Lingue Straniere, ma non è mai stata a una festa universitaria. Niente passeggiate con le amiche, serate in discoteca, pranzi in famiglia. Perché la sua famiglia, oggi, è una squadra di carabinieri, che ha il compito di proteggerla giorno e notte.
Denise Cosco è una delle più giovani super-testimoni contro la ‘ndrangheta al Nord. Tre anni fa, quando aveva solo 17 anni, ha rinnegato suo padre e il suo cognome. La sua vita è cambiata il 24 novembre del 2009. Quel giorno, sua madre Lea Garofalo, 36 anni, ex collaboratrice di giustizia, è stata sequestrata, torturata e infine assassinata con un colpo di pistola alla testa. Il suo cadavere, sciolto nell’acido. Un feroce caso di “lupara bianca” nel centro di Milano. In un solo giorno, Denise ha perso entrambi i genitori. A pianificare e a ordinare il delitto, infatti, sarebbe stato proprio lui, suo padre, Carlo Cosco, presunto appartenente a uno dei più noti clan calabresi provenienti da Petilia Policastro e trapiantati a Milano dove è in corso il processo per la morte di sua madre.
Quel giorno, il più difficile della sua vita, Denise ha scelto: “Voglio stare dalla parte dello Stato”. Ma ora il processo per la morte di sua madre è dovuto ricominciare da capo, a causa dell’annullamento delle prove dibattimentali. Al capo d’accusa nei confronti degli imputati per l’omicidio di sua madre è stata tolta l’aggravante dell’ex articolo 7, quella sul metodo mafioso. In sostanza: per il gip che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, questo non è un delitto di mafia. La ‘ndrangheta è da collocare “solo nello sfondo”. In poche parole: un delitto “quasi” mafioso. Anche se i presunti protagonisti sarebbero collusi con un’organizzazione criminale e mafiosi sarebbero i metodi. A luglio scadono i termini di custodia cautelare nei confronti degli imputati. E ora, per Denise, questa è una corsa contro il tempo perché si arrivi a delle condanne.
Eppure, dalla sera stessa della scomparsa della madre, lei aveva subito sospettato che il responsabile sarebbe potuto essere l’uomo che aveva il suo stesso sangue e che le aveva dato la vita. Cosco, infatti, non avrebbe mai perdonato alla ex compagna di aver testimoniato in passato contro di lui e il suo clan. Già una volta un sicario sarebbe stato inviato per ucciderla. Un tentativo poi fallito. Per più di un anno, Denise, controllata a vista, ha finto, ha sopportato, ha mangiato alla stessa tavola di chi avrebbe assassinato sua madre. «Se mi fossi ribellata – ha sempre ripetuto – avrei fatto la sua stessa fine». L’inferno è finito un anno dopo, nel giorno in cui i carabinieri del Nucleo Investigativo di Milano hanno arrestato Carlo Cosco e un intero clan familiare: gli zii paterni della ragazza, Vito e Giuseppe, e altri tre uomini dell’entourage. Lo scorso 4 dicembre Denise ha compiuto 20 anni. Ora vive in una località protetta, sotto scorta, non può ricevere visite né fare telefonate, se non a persone di massima fiducia.
Fra queste, l’avvocato Vincenza Rando, dell’associazione antimafia Libera, anche lei testimone chiave nel processo contro il clan Cosco. L’avvocato aveva cercato in tutti i modi di convincere Lea Garofalo a non andare a Milano dall’ex marito, dove avrebbe potuto trovare la morte. Nonostante la tensione, e la pressione emotiva, Denise è riuscita a diplomarsi, da privatista, al liceo linguistico, anche grazie a una borsa di studio che le è stata assegnata dalla Regione Calabria. Ora si è iscritta alla facoltà di Lingue e Letterature straniere. Vorrebbe diventare una traduttrice e trasferirsi all’estero, negli Stati Uniti, o magari in Australia, per rifarsi una vita, come sognava sua madre. Ogni giorno – recapitate all’associazione Libera – riceve lettere di solidarietà da ogni parte d’Italia, che la incitano a non arrendersi. E l’affetto le arriva anche dal web, su Facebook, con un gruppo in suo nome: “Sosteniamo Denise Cosco”.
Il processo a carico di suo padre era iniziato il 6 luglio scorso, nella Corte d’Assise del Tribunale di Milano. Poi, a causa del trasferimento di un giudice, è dovuto ripartire da capo. In aula, appunto, il colpo di scena: all’accusa di omicidio volontario premeditato è stata tolta l’aggravante dell’ex articolo 7. In sostanza, per la Procura di Milano, in questo omicidio, la mafia pur essendoci è “marginale”. Una decisione che, se il processo dovesse concludersi con delle condanne, le renderà più blande. Secondo la legge, infatti, il riconoscimento dell’aggravante prevede che agli anni di reclusione ne siano aggiunti altri pari ad un terzo della pena complessiva.
E, proprio come sua madre, che aveva perso fiducia nello Stato quando nel 2006 si era vista revocare il programma di protezione testimoni, anche Denise ha subito un duro colpo psicologico. «Per ora siamo riusciti a evitare la necessità, e dunque il trauma, di una nuova testimonianza in aula facendo valere le deposizioni già rese – racconta l’avvocato Rando – ma i termini di custodia cautelare, per gli imputati, scadono fra quattro mesi. E, se non sarà emessa una sentenza, gli arrestati torneranno liberi. Allora sì che l’incubo si ripeterà».
Mai per una volta, però, Denise ha pensato di mollare. «Mia mamma ha pagato con la vita la sua scelta di darmi un futuro migliore, lontano dalle faide e dal sangue – spiega Denise – e ora io porterò avanti quello che lei ha iniziato. Quello che mi dà forza è il pensiero che prima o poi sarà fatta giustizia. E io vivrò una vita normale, anche per lei».