Noi paghiamo l’Iva al 21%, i partiti al 4%

Noi paghiamo l’Iva al 21%, i partiti al 4%

Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico, ha lanciato nei giorni scorsi la proposta di dimezzare i rimborsi elettorali ai partiti. Finalmente, avranno commentato non pochi elettori del Pd, ai quali deve essere parso proprio poco coraggioso il ddl concepito dallo stesso Bersani assieme a Casini ed Alfano sul tema del foraggiamento pubblico ai partiti.

Se però l’obiettivo è quello di dare seriamente una sforbiciata alle cospicue risorse che direttamente o indirettamente finanziano la improduttiva politica nostrana, i margini di intervento sono ancora ampi. In primo luogo perchè Bersani, al pari di Alfano e Casini sa o dovrebbe sapere che una legge vecchia di quasi 20 anni prevede un assoggettamento ad IVA di netto favore (4 per cento) su tutto “il materiale, attinente alle campagne elettorali, commissionato dai partiti e dai movimenti, dalle liste di candidati e dai candidati”.

Per effetto di disposizioni contenute in una legge ad hoc approvata dal Parlamento nel 2004 (“Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo ed altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004), l’ambito applicativo dell’aliquota agevolata è stato peraltro notevolmente esteso. Cosicché, come confermato da una circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate di quell’anno, il primo effetto dell’innovazione normativa è stato che l’aliquota del 4 per cento ha assunto una portata generale, tale da riguardare la generalità delle competizioni elettorali; secondariamente, la forte riduzione dell’IVA riguarda “materiale tipografico, inclusi carta e inchiostri in esso impiegati, l’acquisto di spazi d’affissione, di comunicazione politica radiotelevisiva, di messaggi politici ed elettorali sui quotidiani e periodici, l’affitto dei locali e per gli allestimenti e i servizi connessi a manifestazioni”. Tutto ciò, “nei novanta giorni precedenti le elezioni della Camera e del Senato, dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia nonché, nelle aree interessate, dei presidenti e dei consigli regionali e provinciali, dei sindaci e dei consigli comunali e circoscrizionali”.

È allora doveroso richiamare due questioni – che non dovrebbero sfuggire alla politica – in virtù della quale appare fuori luogo la permanenza, così come è formulata, di una previsione normativa di tale favore. La prima investe l’opportunità di lasciare l’aliquota IVA sugli acquisti dei partiti allo stesso livello di quella che si paga sui beni alimentari di primaria necessità, come ad esempio il pane, il riso, la farina, il latte fresco, il burro, l’olio d’oliva. La politica è un fatto importante, ma anche solo immaginare di porla sullo stesso piano del pane è davvero una provocazione. Il secondo aspetto, di natura squisitamente contabile, riguarda il fatto che, viste le centinaia di competizioni elettorali svoltesi negli ultimi 20 anni e il numero abnorme di formazioni politiche spuntate come funghi in occasione di esse – sono addirittura 70 i partiti che nel 2011 hanno presentato il proprio rendiconto all’ufficio di Presidenza della Camera – la norma sull’IVA al 4% ha prodotto da 1993 ad oggi un buco all’erario di svariate decine di milioni di euro. Ciò peraltro senza che la qualità della vita democratica del Paese ne abbia tratto particolare vantaggio.

Un’altra “paccata” di milioni di euro a carico della collettività riguarda invece i risparmi prodotti a beneficio dei partiti grazie alle agevolazioni tariffarie sulle spedizioni di materiale elettorale. Anche in questo caso, una legge di venti anni fa stabilisce che “per le elezioni politiche per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, dei rappresentanti italiani al Parlamento Europeo, per le elezioni dei Consigli delle Regioni a statuto ordinario e, in quanto compatibili delle Regioni a statuto speciale, per le elezioni dei Consigli Comunali e Provinciali, del Sindaco e del Presidente della Provincia” la spedizione di plichi di peso non superiore a 70 grammi avvenga ad una tariffa postale super agevolata, pari a 0,04 euro. Il fatto che possa essere inviata da parte di ogni candidato una quantità notevole di materiale elettorale – “un numero massimo di copie pari al totale degli elettori iscritti nel collegio per i singoli candidati, e pari al totale degli elettori iscritti nella circoscrizione per le liste di candidati” recita la legge – ha così prodotto un costo enorme: 550 milioni dal 2005 al 2011. Tale cifra è il risultato della somma dei crediti di Poste Italiane nei confronti del Ministero delle Finanze, iscritti ogni anno a bilancio alla voce “riduzioni e agevolazioni tariffarie spettanti ai candidati delle campagne elettorali”: si tratta di una media annuale di 80 milioni di euro, con punte di 110 milioni nel 2009, anno di svolgimento delle elezioni europee. Visto poi il ritardo, di almeno 12 mesi, con cui il ministero onora il proprio debito, su tali poste maturano anche gli interessi, che, sempre negli ultimi 7 anni, sono stati pari a circa 10 milioni di euro. Una situazione, questa, che pare stia per giunta aggravandosi, poiché, come si legge nella relazione finanziaria 2011 di Poste, “compensi per circa 155 milioni di euro sono privi di copertura finanziaria nel Bilancio dello Stato ed il pagamento di circa 10 milioni di euro risulta, ad oggi, sospeso in attesa di specifici provvedimenti”.

La domanda, tutt’altro che condita di qualunquismo, sorge spontanea: ha ancora senso mantenere agevolazioni di questo tipo in un contesto che, da un punto di vista comunicativo, è profondamente diverso da quello in cui, quasi venti anni fa, la lettera costituiva l’unico mezzo per far giungere il materiale elettorale a casa degli italiani? E ancora, è mai possibile che alla politica sfugga come la travolgente era digitale abbia allargato in modo considerevole la piattaforma di canali comunicativi con l’elettorato, per giunta a costi in tanti casi prossimi allo zero?

Alfano, Casini e Bersani converranno con il Presidente della Repubblica sulla necessità di non dar fiato alla demagogia dell’antipolitica e che ci si debba impegnare “perché i partiti ritrovino lo slancio degli ideali senza abbandonarsi alla cieca sfiducia”: quale migliore occasione dunque che quella di riformare sostanzialmente e non già a spizzichi e bocconi, l’ambito dei costi della vita politica dei partiti, a cominciare da quelli relativi a sempre più onerose campagne elettorali. A meno che ABC non siano dell’idea secondo cui l’uso del denaro pubblico è ben finalizzato, continuando – a costi irrisori per i partiti ma enormi per gli italiani – a permettere che le nostre cassette delle lettere siano inondate di “santini” che ormai nessuno più guarda, che le città siano tappezzate di manifesti densi di belle promesse, che i principali siti web siano occupati con logori slogan e che i programmi radio e tv siano interrotti da poco accattivanti spot.

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