«Quella mattina io ero al giornale L’Ora. Fu una cosa tremenda. Andai sul posto e trovai Falcone, Borsellino, Chinnici e Cassarà. Un fotografo li vide e li riprese tutti insieme in piazza Turba, davanti alla gamba penzolante del segretario del Pci siciliano. Negli anni a venire li avrebbero uccisi tutti e quattro», racconta a Linkiesta il giornalista del quotidiano La Repubblica Attilio Bolzoni.
Era la mattina del 30 aprile 1982, una di quelle mattine di primavera con un caldo di scirocco a preannunciare l’estate che sarebbe arrivata di lì a poco. E quella mattina, una come tante altre, Pio La Torre, allora segretario regionale del Pci, insieme al fedele amico Rosario Di Salvo, era diretto alla sede del partito di corso Calatafimi. I killer erano lì a pochi metri dalla Fiat 132 del segretario regionale dei comunisti. «[…] Aspettarono che la 132 si trovasse al centro di una stradina stretta, in un punto scelto con cura perché poco frequentato, e diedero l’assalto. Una motocicletta costrinse Di Salvo a frenare. Partirono le prime raffiche tutte per La Torre. Di Salvo fece in tempo a estrarre la pistola ma i colpi andarono a vuoto. Vennero trovati sull’asfalto una quarantina di bossoli. La Torre e Di Salvo ancora con gli occhi spalancati come di chi ha avuto poco tempo per morire. Niente testimoni. Niente tracce. Niente informazioni ma attendibili. […]», scrive Saverio Lodato, giornalista de L’Unità, nel volume Trent’anni di mafia.
«Era un attacco allo Stato», si disse da più parti. Emanuele Macaluso, compagno e amico di Pio La Torre, vent’anni dopo sulle colonne de L’Unità scrisse:«Toccò infatti a lui che era in prima linea e aveva capito il senso dell’attacco mosso dal terrorismo mafioso. Cosa Nostra non gli perdonò tre cose: la proposta di legge per sequestrare i patrimoni dei boss; il passo fatto nei confronti del presidente del Consiglio Spadolini per inviare in Sicilia il generale Dalla Chiesa; il fatto che avesse capito come stavano le cose e organizzato le forze per combattere su quel fronte».
Secondo Bolzoni, Pio La Torre fu ucciso «perché sapeva due lingue, sapeva tradurre il siciliano in italiano. Sapeva decifrare la complicata realtà siciliana, dove stavano cambiando tutti gli equilibri». Questa è stata la sua condanna a morte. Anche se, continua Bolzoni, «nel suo partito non c’era nessuno che si occupò del fenomeno mafioso come lui, in realtà passava per un rompicoglioni. Lui per primo ha capito cosa c’era in Sicilia».
Ma chi era Pio La Torre? Padre di due figli, marito di Giuseppina Zacco. E soprattutto comunista fin dalla giovane età. «Era molto dedito al partito ma quel poco tempo che aveva a disposizione lo dedicava alla famiglia, che era molto unita», racconta Bolzoni. Nel 1972 viene eletto al Parlamento, e si occupa di agricoltura. «D’altronde si impegnò da sempre nella lotte a favore dei braccianti», dicono di lui. Ma è nel 1981 che cambia la sua vita. Da Roma, decide di tornare in Sicilia, dove assume la responsabilità di segretario regionale del partito. La Torre è consapevole della gravità della situazione dell’isola. A preoccuparlo è sopratutto la criminalità mafiosa e la minaccia per la pace rappresentata, a suo giudizio, dalla base missilistica di Comiso.
Quella contro i missili nel vecchio aeroporto di Comiso, alla punta meridionale dell’isola, è una delle guerre combattute da Pio La Torre negli ultimi mesi di vita. Una dirigente del Pci di quegli anni sottolinea che «sulla vicenda Comiso il Pci meridionale chiuse le porte a La Torre, nicchiava sulla sua posizione. E molti ancora oggi negano sia andata così». L’altra battaglia di La Torre fu quella contro la mafia. Fu il primo a comprendere che bisognava seguire i “piccioli”, il danaro. Scrive Saverio Lodato in Trent’anni di Mafia:«[…] Aveva conosciuto carrettieri diventati miliardiari. Trovava scandaloso che semplici funzionari o assessori comunali e regionali fossero diventati proprietari di lussiosissime ville con l’apparente introito d’un semplice stipendio. […] Giunse così che si doveva qualcosa di serio contro la mafia, di decisivo per recidere una buona volta i rapporti con le cosche, la pubblica amministrazione e la politica, occorreva andare diritti al cuore del problema rappresentato dagli arricchimenti illeciti».
Il ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni, aveva già presentato in Parlamento un disegno di legge sugli accertamenti di carattere patrimoniale. La Torre, per conto suo, aveva lavorato a un progetto analogo. Dai due lavori nasce la famosa legge “La Torre-Rognoni”, che per la prima volta configurò il reato di associazione di stampo mafioso e la possibilità di confisca dei beni. Ricorda Rognoni su L’Unità di qualche anno fa: «L’assoluta novità della legge La Torre nasce dalla riflessione, da tempo avviata in diverse sedi, sulla situazione della criminalità mafiosa e sui problemi relativi alla prevenzione e alla repressione del fenomeno. La legge, a cui La Torre ha dato un contributo così determinante, ha certamente mostrato l’esattezza dell’intuizione che è alla base, malgrado il difficile componimento di istanze diverse. Per il nostro ordinamento, e anche per nella cultura specialistica internazionale, è stata una novità di grande rilievo».
D’altronde, diceva La Torre in una delle ultime interviste rilasciate al quotidiano La Repubblica, «in Sicilia è messa in discussione la dialettica democratica. Ora si ammazzano i politici che fanno certa politica di apertura, uno dopo l’altro. Il governo deve intervenire, colpire la trama palermitana che alimenta il fuoco dei terroristi, avviare il programma di risanamento dell’isola». Non fu ascoltato, anzi venne ucciso perché credeva in quelle idee. Era uno che quando suo padre, preoccupato dalle sue eccessive intemperanze giovanili gli disse:«Dovresti cambiare idea», lui gli rispose: «Manco per idea». Sappiamo come andò a finire. Ma le sue idee a trent’anni di distanza sono più vive che mai.