JP Morgan cade sui derivati che lei stessa ha inventato

JP Morgan cade sui derivati che lei stessa ha inventato

JP Morgan, la più blasonata istituzione finanziaria statunitense, è stata investita da una colossale perdita in operazioni su derivati. Per iniziare a spingere l’analisi di quanto accaduto oltre gli aspetti, pur rilevanti in sé e per l’opinione pubblica, della quantificazione dell’entità delle perdite e dell’individuazione delle responsabilità interne all’azienda, ci si potrebbe chiedere: come ha potuto un simile fatto succedere in un’azienda che da tempo fa scuola in tema di individuazione, quantificazione e gestione dei rischi?

Al riguardo, ricordiamo che sin dalla seconda metà del decennio 1980 era proprio JP Morgan ad avviare, con quello che sarebbe divenuto noto come “Rapporto delle 16:15”, la pratica oggi diffusa del calcolo quotidiano del Value at Risk (VaR), ovvero della perdita massima attesa da ogni singola azienda espressa dapprima in percentuali e poi in valori monetari assoluti. Ricordiamo altresì che, nel 1994, in occasione dell’incidente petrolifero Exxon Valdez, era ancora JP Morgan a inventare il Credit Default Swap (CDS), strumento in sé nobile di copertura del rischio di credito, e che pure sarebbe entrato a far parte dell’armamentario di ogni istituzione finanziaria. Infine, in tempi recenti JP Morgan dava un’altra lezione di risk management all’intera industria finanziaria decidendo di uscire dal settore immobiliare prima che la bolla scoppiasse e sulla base di un lucido quanto raro ragionamento del tipo: «In tema di ciclo dei valori immobiliari non disponiamo ancora di dati sufficienti per convincerci che il mercato non sia sopravvalutato e non possa scendere».

In quest’articolo, però, più che soffermarci sull’evidente contraddizione emersa tra una buona tradizione di risk management e l’incidente recente, vorremmo spingere la riflessione ancora più in profondità richiamando il ruolo di punta che JP Morgan ha avuto nel fare sì che negli USA non si arrivasse mai a una regolamentazione organica proprio di quei derivati che ora le hanno causato la colossale perdita.

La vicenda, ben raccontata in ogni storia ordinata della finanza degli ultimi decenni, parte dal 1988 quando JP Morgan colloca un proprio uomo, Mark Brickell, al vertice del gruppo di pressione ISDA, creato dai maggiori operatori in swaps in risposta alle crescenti attenzioni delle autorità di vigilanza. Di lì a poco, la Commodity Futures Trading Commission (CFTC) – agenzia indipendente che regola gli scambi in opzioni e derivati – annuncia di voler stabilire se i derivati siano o meno futures.

La domanda non è banale perché, in caso di risposta affermativa, automaticamente gli swaps ricadrebbero sotto il potere regolamentare della CFTC. Brickell sferra allora un attacco difensivo basato sui seguenti argomenti: (a) poiché l’attività in derivati è fonte continua di innovazione finalizzata a ridurre il rischio, è bene che essa non venga frenata da alcuna regolamentazione; (b) gli operatori in derivati sono in banche, quindi istituzioni già sottoposte a regolamentazione e vigilanza, e sono comunque soggetti informati e sofisticati che non hanno bisogno di particolari tutele e controlli; (c) il mercato basta da solo a tenere tutto in ordine; (d) i derivati non possono essere futures perché, se lo fossero, per il fatto di non originare in mercati regolamentati i relativi contratti non avrebbero forza legale. Passando dalle affermazioni alle omissioni, Brickell fa finta di non vedere che i derivati non annullano il rischio, ma lo spostano semplicemente da un’istituzione a un’altra, con conseguente formarsi anche di un grado di interconnessione tra le medesime, che prima non esisteva. 

Nel pieno dello scontro tra CFTC e industria dei derivati, George Bush nomina un nuovo presidente di CFTC il cui primo atto consiste nell’incontrare proprio sia Brickell sia un Alan Greenspan (ex presidente della Federal Reserve, ndr) che è stato nel board di JP Morgan e ha pure sposato la tesi che non serva alcuna regolamentazione perché «il mercato basta e avanza». Risultato: nel 1989 la stessa CFTC delibera che i derivati non sono futures.

Nei primi anni ’90, la stessa JP Morgan e Brickell sono nuovamente in prima fila nel produrre un rapporto di ben quattro volumi titolato Derivatives Practices and Principles e pure finalizzato a contrastare le attenzioni delle Autorità. Questa volta l’argomento centrale è: basta l’autodisciplina degli operatori.
Il braccio di ferro con i regolatori si riapre nel 1992, quando il presidente Corrigan della Fed di New York lancia un forte richiamo ai rischi dei derivati e chiede che il General Accounting Office (GAO) realizzi un’indagine a tappeto in materia. L’industria risponde “favorendo” il passaggio di Corrigan dalla Fed a Goldman Sachs, con suo netto e imbarazzante cambio di opinioni in tema di derivati.

Nel frattempo, però, i rischi dei derivati si stanno concretizzando nelle grosse perdite registrate da Procter & Gamble, Gibson Greetings e Orange County su contratti proposti loro da Bankers Trust e Merril Lynch. Per cui, il GAO avvia comunque un’indagine conoscitiva chiedendo ai quindici maggiori operatori in derivati una dettagliata rendicontazione della propria attività. Sulla base dell’evidenza fornita da quattordici di essi –il quindicesimo si rifiuta di collaborare – il GAO stende un rapporto allarmante.

Dal quale risulta che: (a) la maggior parte dell’operatività in derivati avviene non in banche regolamentate e vigilate, come ha sempre sostenuto Brickell, ma in società di brokeraggio e assicurative e in veicoli creati appositamente proprio per sfuggire al controllo di ogni autorità, SEC (la Consob americana, ndr) inclusa; (b) almeno un terzo di tali operatori non attua gli stress tests, e (c) l’entità dell’operatività di ogni singolo operatore è tale sia da porre, in caso di default, rischi “sistemici” di liquidità e controparte sia da costituire una seria minaccia per le stesse banche dotate di assicurazione federale. 

Il rapporto del GAO sfocia nella proposta al Congresso – certo non radicale né onerosa – di fare sì che i singoli operatori forniscano alle autorità informazione atta a consentire di anticipare il precipitare di una crisi o comunque di gestirla al meglio. Ma anche questa volta l’industria contrattacca con la duplice tesi che la rischiosità sistemica dei derivati non è stata dimostrata e che la proposta del GAO ridurrebbe fortemente la disponibilità di derivati, danneggiando così l’economia reale. Nel corso delle audizioni conoscitive del Congresso, gli uomini del GAO sono aggrediti verbalmente da diversi parlamentari e non trovano sostegno nemmeno negli uomini di FDIC (l’agenzia che assicura i depositi bancari Usa), SEC, Tesoro e Fed. Per cui, non se ne fa nulla: il lobbismo avviato da Brickell prima del suo passaggio delle consegne quale presidente di ISDA è risultato ancora una volta efficace. 

Ritornando all’oggi, poiché in incidenti simili c’è sempre un potenziale rischio sistemico, non è il caso di concludere in modo beffardo con il detto “chi è causa del proprio mal, pianga se stesso”. Ci sia però consentito rimarcare due cose. Primo, è evidente che anche in finanza esiste una nemesi storica; in questo caso, il punto è peraltro rafforzato dal fatto che la quindicesima istituzione che si rifiutava di collaborare con il GAO era quell’American Insurance Group (AIG) che nel 2008 sarebbe stata travolta proprio dall’operatività in derivati. Secondo, le banche che raccolgono depositi e sono sostenute dall’assicurazione statale non possono essere gestite come hedge funds; a questo riguardo, oggi un Jamie Dimon (numero uno di JP Morgan, ndr) visibilmente indebolito alza le braccia e si dice d’accordo con il varo della “Regola di Volker”, ma ieri – e precisamente a partire dal 1990 – il suo stesso predecessore sulla poltrona di amministratore delegato di JPMorgan, Weatherstone, s’incaricava di svolgere un ruolo di punta nel far saltare il Glass-Steagall.

*ordinario di Economia politica all’Università di Brescia

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