Aggiornamento del 6 giugno 2012
Potrebbe essere solo una beffarda casualità ma il destino sembra proprio remare contro i beni confiscati alla famiglia mafiosa dei Riela, organica al clan Santapaola. A distanza di poche settimane dalla messa in liquidazione della Riela Trasporti, nella notte tra sabato e domenica sono andati a fuoco circa 6 ettari di un terreno confiscato proprio alla famiglia catanese. Il bene è gestito da Libera e ancora non sono note le cause dell’incendio. Duemila piante di arance e cento ulivi divorati dalle fiamme: tragica coincidenza o altro colpo inferto dalla mafia?
Lo scorso 30 aprile si è celebrato il trentennale della morte di Pio La Torre, il politico siciliano del Pci trucidato dalla mafia per le sue battaglie a favore della legalità. L’eredità morale e politica che ha lasciato Pio La Torre é la legge, concepita quando ancora di mafia si parlava molto poco e con molta meno perizia di adesso, che prevede la confisca e il riutilizzo dei beni appartenuti ai mafiosi.
La lungimiranza di La Torre si scontrerebbe adesso con una realtà, in rapporto al numero dei beni sequestrati e ai risultati ottenuti, a dir poco desolante. La “messa in circolo” e il decantato “reinserimento” nella società dei beni confiscati alla criminalità organizzata in molti casi rappresenta un vero e proprio miraggio. Sono molteplici le storie che raccontano di uno Stato che china il capo dinanzi allo strapotere della mafia.
Nove aziende su dieci sequestrate alla mafia e affidate agli amministratori giudiziari non ce la fanno a stare sul mercato e chiudono, rappresentando una sconfitta collettiva.
Una di queste si é concretizzata, ironia della sorte, proprio il 30 aprile di quest’anno. Siamo nel profondo sud, in provincia di Catania. Proprio quella città definita, tempo fa, la “Milano del Sud” per la sua effervescenza imprenditoriale. Dietro le bollicine però, in molti casi, si sono nascoste imprese in odor di mafia, gestite direttamente o indirettamente dai boss. Il gruppo Riela era un’azienda di trasporto su gomma, confiscata nel 1999. Per volontà dell’Agenzia per i Beni Confiscati verrà presto posta in liquidazione perché non riesce a stare sul mercato e proprio una settimana fa i lavoratori sono stati messi in mobilità.
La storia del gruppo Riela rappresenta il paradigma di un sistema che, specie dopo le recenti dichiarazioni del ministro degli Interni Annamaria Cancellieri, dimostra parecchie falle. La Riela sino al suo sequestro era la quattordicesima azienda a livello regionale, con un fatturato di 30 milioni di euro, 250 dipendenti e un parco di 200 camion nuovi fiammanti.
L’azienda, che si trova a Belpasso, apparteneva a Lorenzo e Francesco Riela. Il primo é deceduto qualche anno fa, mentre il secondo sta scontando l’ergastolo per omicidio. Entrambi erano organici al clan Santapaola, che ha avuto da sempre il pallino dei trasporti. La Sud Trasporti, una delle aziende leader del settore, appartiene ad Angelo Ercolano, che é incensurato ma anche cugino e nipote di personaggi del calibro di Pippo, Aldo ed Enzo Ercolano. Aldo é stato uno degli esecutori materiali dell’omicidio del giornalista Pippo Fava.
Subito dopo la confisca i Riela non si sono dati per vinti e hanno cercato in tutti i modi di rientrare in possesso del loro gioiellino. E visti i risultati ottenuti ci sono andati molto vicino. Attraverso dei prestanome costituirono nel 2007, anno in cui furono estromessi definitivamente dalla gestione dell’azienda, un consorzio di autotrasportatori denominato Setra. In breve tempo molti dipendenti della Riela passarono a lavorare per il consorzio Setra, il quale letteralmente “rubò” diverse commesse all’azienda confiscata in virtù di una politica dei prezzi al ribasso. Il consorzio, nel giro di pochi anni, riuscì a mettere in ginocchio la Riela divenendone il maggiore creditore, per un importo pari a circa 6,5 milioni di euro.
Gli inquirenti percependo il torbido che si celava dietro il consorzio decisero di porlo sotto sequestro, ipotizzando che dietro di esso si celasse una manovra speculativa degli antichi proprietari per riprendere il controllo dell’azienda.
Il sequestro durò poco: il tribunale della libertà provvide al dissequestro, ma il pubblico ministero Antonino Fanara fece ricorso e lo vinse in Cassazione. Nonostante la vittoria in sede giudiziaria sul destino della Riela sono rimasti i decreti ingiuntivi del tribunale etneo che costringono l’azienda a versare i 6 milioni e mezzo di euro al consorzio Setra. Già nel 2007 lo spettro della liquidazione aveva investito il gruppo, ma un tavolo tecnico tra Agenzia del Demanio, Unioncamere, Italia Lavoro e Confcooperative aveva scongiurato la liquidazione e aveva anzi programmato un piano di rafforzamento industriale e di riqualificazione dei lavoratori per una successiva vendita.
Però dal 10 gennaio di quest’anno sono state avviate le procedure per la liquidazione del gruppo a seguito di una determinazione dello scorso 19 luglio dell’Agenzia per i beni confiscati. I motivi? Troppi debiti: «l’azienda non riesce a stare sul mercato».
Così per 22 lavoratori il futuro é a rischio. Dal 30 aprile le attività si sono fermate e già a 12 di loro il contratto non é stato rinnovato, nonostante diversi summit in prefettura a Catania con le sigle sindacali e diversi incontri a Reggio Calabria presso la sede dell’Agenzia per i Beni Confiscati.
Mario Di Marco è il direttore amministrativo della Riela, nonché il dipendente più anziano. Ma é anche quello che crede più di tutti nel valore etico e sociale della Riela e usa i paradossi per sfogare la sua frustrazione. «Chiudere la Riela rappresenta una sconfitta per lo Stato – spiega Di Marco – e dà un segnale di resa nei confronti della mafia. Perché non ci danno delle commesse pubbliche per lavorare? Perché vogliono pagare il nostro costo sociale di legalità? Se tutti noi dipendenti dell’azienda, che siamo 23, ci mettessimo a delinquere e ci facessimo arrestare mantenerci in galera costerebbe molto di più allo Stato di quanto costiamo adesso!». «Si parla tanto di antimafia – prosegue Di Marco – ma in concreto non abbiamo visto nulla. Tutti i soldi che si spendono per le scorte di certi personaggi o altre risorse investite in enti che non producono risultati potrebbero essere usate per far lavorare un’azienda sana».
Da cinque anni Di Marco e tutti i dipendenti del gruppo vanno incontro a pesanti sacrifici pur di andare avanti: stipendi che non arrivano mai puntuali, problemi logistici e orari di lavoro che arrivano anche a 12 ore consecutive. Si arriverà ben presto a un epilogo inaspettato: i lavoratori della Riela che avevano creduto al progetto di legalità si troveranno prima in mobilità e poi senza lavoro a seguito della liquidazione, mentre il consorzio Setra potrà ricevere i soldi che gli spettano.
Ma il caso della Riela non è isolato. Il 90% delle aziende confiscate fallisce inevitabilmente. «Noi per lavorare in piena legalità in un settore altamente inquinato dalla mafia – ha chiarito Di Marco – avevamo dei prezzi superiori del 30 – 40% rispetto agli altri. E’ quello il costo della legalità che lo Stato dovrebbe pagare». Soltanto in Sicilia vi sono 567 aziende confiscate, tra cui 489 affidate alla gestione dell’Agenzia. Anch’esse saranno destinate alla liquidazione, portando un’ennesima sconfitta per lo Stato? Il ministro degli Interni Annamaria Cancellieri, che da ex prefetto di Catania si occupò proprio del caso della Riela, ha recentemente affermato di voler rivedere le leggi in materia di gestione dei beni confiscati, accogliendo l’idea suggerita da Confindustria Sicilia per bocca del suo presidente Antonello Montante: vendere i beni.
Per il ministro «quella dei sequestri, della confisca e del riutilizzo dei beni è un dispositivo di norme concepite molto tempo fa quando i sequestri erano oggettivamente pochi, oggi sono molti di più, tanti e soprattutto molto diversificati quindi vanno cambiate le regole». Il dibattito si é aperto tra aperture, con il consiglio di Confindustria di individuare un’area di sperimentazione del progetto, e aspre critiche.
Da un lato c’è chi, seguendo una logica di mercato, è favorevole alla vendita dei beni per poter creare subito reddito di un patrimonio stimato di circa 20 miliardi di euro. Dall’altra c’è chi teme che i clan, tramite prestanome, possano riappropriarsi dei beni messi in vendita. Anche se il caso della Riela dimostra il fallimento dell’attuale sistema di gestione, tanto che nello specifico il ministro Cancellieri ha dichiarato che «il rischio è dare un messaggio perverso e cioè che i clan riescono a garantire occupazione e sviluppo mentre l’arrivo dello Stato significa disoccupazione e impoverimento».
A certificare la longa manus della mafia nella vicenda Riela è arrivata l’inchiesta della Guardia di Finanza etnea e della Procura Antimafia che il 26 giugno ha emesso due ordinanze di custodia cautelare per i fratelli imprenditori: Francesco, già in carcere, e Filippo. Entrambi sono accusati di associazione mafiosa e le accuse che li inchiodano sono state formulate grazie all’apporto di alcuni pentiti, i quali hanno raccontato del potere di Francesco Riela anche da dietro le sbarre.
Nella gestione dei beni confiscati anche la burocrazia, con gli amministratori finanziari dell’Agenzia del demanio, rallenta il normale iter interno di un’azienda, rallentando tutti i processi economici e decisionali che in un’altra ditta sarebbero presi molto più rapidamente.
Una speranza, adesso, per la Riela potrebbe essere rappresentata da qualche investimento privato, anche se probabilmente sarebbe bastata qualche commessa statale per poter risanare i conti dell’azienda e permettere a 23 lavoratori di fregiarsi della possibilità di lavorare in un’azienda pulita.