Il 6 marzo scorso Google ha unificato il punto di accesso a tutte le applicazioni, la musica, i film e i libri che possono essere raggiunti tramite i suoi servizi. Google Play è il nome della piattaforma che funziona sia sui dispositivi mobili, sia sul desktop. Il successo del dispositivo è confermato dai numeri che sono stati divulgati in questi giorni da Google sulla quantità di applicazioni scaricate negli ultimi tempi: secondo le dichiarazioni di Mountain View, in tre mesi gli utenti avrebbero eseguito quattro miliardi di download. Se i dati fossero corretti, Google vanterebbe una posizione davvero minacciosa nella competizione con Apple, che ha conosciuto un ritmo di oltre 12 miliardi di download dalla piattaforma iTunes nell’ultimo anno.
L’integrazione dei dispositivi dedicati ai libri rappresenta una delle istanze più dirompenti della piattaforma. In Google Play è confluito sia il servizio di ricerca dei libri, sia quello dell’acquisto dei libri. Il servizio quindi non si limita ad essere un meccanismo di e-commerce, ma si trasforma in un primo esperimento di “ecosistema di lettura digitale”. Il segmento «Books» di Google Play è un ambiente di studio, di rielaborazione e di piacere letterario, dove all’interno della scrivania stessa dell’utente si aprono due finestre, una verso una biblioteca che aspira a catalogare circa 15 milioni di volumi, e una verso una libreria di due milioni di titoli in 35 lingue, con la collaborazione di editori da oltre cento nazioni.
La biblioteca permette di esplorare il più ampio repertorio di volumi compilato nel mondo, raggiungendo le indicazioni bibliografiche essenziali di ogni titolo, e un breve abstract del contenuto. I testi che non sono più coperti dai diritti di proprietà intellettuale possono essere consultati in formato integrale via browser, oppure possono essere scaricati in locale dall’utente, che li può consultare in PDF o in epub – quando questa versione è disponibile. Per tutti gli altri volumi vengono suggerite alcune modalità di recupero del contenuto, sia in vendita sia in consultazione, sia nel formato fisico sia in quello digitale: Google ha stretto un certo numero di convenzioni con catene di rivenditori e biblioteche, e indirizza gli utenti vero i loro servizi. La libreria invece rappresenta il servizio di vendita diretto della piattaforma. Per tutti i titoli in catalogo si può sfogliare un’anteprima del contenuto, oppure procedere all’acquisto.
L’estensione del catalogo in continua crescita di Google può suggerire l’immagine di una Biblioteca di Alessandria contemporanea, dove tutto il sapere istituzionale viene messo a disposizione dei ricercatori – anche al costo di un conflitto legale aperto con gli editori tradizionali. Ma più che le analogie con la tradizione delle biblioteche fisiche, credo sia interessante osservare le differenze.
Anzitutto è differente l’esperienza di consultazione. Il dispositivo «I miei libri» è l’ambiente in cui si trovano tutti i testi che sono sembrati in qualche modo interessanti all’utente nel corso delle sue indagini: sono disponibili non solo i libri che ha acquistato, ma anche quelli che ha scaricato gratuitamente dalla biblioteca, o le anteprime che ha salvato senza acquisto successivo. I volumi lo seguono ovunque, dal momento che si trovano nella Cloud di Google – e quindi sono disponibili su qualunque computer e qualunque dispositivo mobile. Per trovarli il proprietario deve solo eseguire la log-in nel Sistema, senza preoccuparsi di traslocarli ad ogni suo spostamento. I titoli salvati conservano ovunque anche la personalizzazione dell’utente, che può intervenire sul testo aggiungendo annotazioni e sottolineando le porzioni di maggiore interesse, come avviene per i libri fisici.
In secondo luogo è differente la modalità di ricerca. Visto che si tratta di Google, la questione non è sorprendente. Il dispositivo digitale permette di esplorare i contenuti di ogni libro evidenziando uno o più lemmi nel contenuto e individuando tutte le loro occorrenze nel testo, oppure consente di eseguire la ricerca sul motore universale di Google. L’esperienza di consultazione del catalogo di una biblioteca richiede un coinvolgimento personale e un investimento di tempo significativi. Bisogna raggiungere la sede fisica dell’archivio, spostarsi da una sede all’altra, spesso viaggiare da una città all’altra, per riuscire a individuare tutti i frammenti della bibliografia; bisogna condurre un’ispezione paziente dei contenuti e delle references ospitate in ciascun volume. La bibliografia si compone attraverso questo percorso di inferenza da un testo all’altro.
Il motore di Google permette invece di eseguire ricerche puntuali, che raccolgono in maniera istantanea tutti i titoli pertinenti rispetto alla nozione in esame. L’indagine non richiede nessuno spostamento, può essere lanciata direttamente dalle pagine del libro in consultazione, permette di includere nel proprio archivio personale tutti i risultati interessanti che sono stati rintracciati. I link tra i volumi vengono stabiliti dal dispositivo, la valutazione della rilevanza viene affidata all’algoritmo di ricerca.
La ricerca digitale sottrae le occasioni di serendipity che si presentano nel corso di un’esplorazione fisica tra gli scaffali, quando si trovano per caso testi che non si immaginava nemmeno di stare cercando. Ma soprattutto sostituisce la velocità e la precisione dei risultati corretti alla formazione di una cultura nel ricercatore. La lettura di libri che non sono immediatamente utili o rilevanti, la consultazione di più fonti rispetto a quelle corrette, la ricognizione completa dei testi, hanno permesso ai ricercatori che in passato potevano ricorrere solo ai dispositivi analogici della realtà off-line di guadagnare una vera competenza sui problemi di cui si occupavano; la velocità e la puntualità del motore di ricerca la negano come un lusso superfluo. La visione del mondo, la comprensione dello spirito delle questioni – oltre al focus sul singolo dato corretto – sono ciò che rende viva la cultura e le permette di riprodursi; ed è questo che sembra essere eliminato dal dispositivo digitale. È questo il senso delle riflessioni di Nicholas Carr quando già alcuni anni fa si domandava se Google ci rende stupidi proprio a causa del suo contributo nella generazione di un mondo sempre più ricco di informazioni.
L’ambiente di lettura, con i suoi scaffali disponibili ovunque e i propri appunti indelebili – e il dispositivo di ricerca su milioni di titoli consultabili e scaricabili – formano un ecosistema di ricerca o di svago di cui Google Play è il primo esperimento, in attesa di sviluppi. La struttura attuale si espone sia alle critiche di Carr, sia a quelle di segno opposto di Eli Pariser – secondo il quale i meccanismi di personalizzazione adottati dal motore di ricerca tendono a restringere le informazioni cui gli utenti possono accedere, proiettando attorno a loro un mondo come essi vorrebbero che fosse, e non come la realtà si presenta davvero. La profilazione penalizza le alternative al proprio punto di vista e il senso critico. Tuttavia, Google Play costituisce un esempio di ciò che l’editoria potrebbe diventare: un segmento sempre più definito dalla progettualità informatica e dalla tecnologia, e sempre meno dai piani editoriali. Il trionfo mondiale del Web, con la diffusione delle piattaforme di blogging, ha inaugurato un’epoca in cui la pubblicazione non è più vincolata alle restrizioni economiche e tecniche del passato: Shirky deduce che non è più necessaria la selezione editoriale, né è legittima la dignità che le veniva attribuita fino a qualche anno fa. Lo studio di ecosistemi di lettura specializzati per i vari obiettivi (dall’aggiornamento professionale alla ricerca universitaria, dalla consultazione enciclopedica allo svago) vanno a modellare l’esperienza dell’utente nell’interpretazione personale dei testi, nella loro selezione, nella ricerca di altri titoli per l’approfondimento – e si impongono come questioni interne alla strategia editoriale, almeno quanto la produzione dei contenuti. Parte dell’intelligenza (e della stupidità) della lettura si trasferisce al dispositivo della libreria: gli editori del nuovo millennio non possono abbandonarlo alle software house – o saranno queste gli editori del XXI secolo, come già Google viene riconosciuta in America.