Il primo mandato di Barack Obama è al termine e negli Stati Uniti una domanda domina il dibattito elettorale: che cosa ha fatto il primo presidente nero nei suoi primi tre anni e mezzo di Casa Bianca? Fatta la tara di mille iniziative a pioggia, Obama ha fatto tre cose importanti: due all’interno e una all’estero.
In politica interna Obama ha fatto passare una storica riforma della sanità e ha cercato di salvare l’economia dal collasso con uno stimolo di 787 miliardi di dollari; in politica estera ha ribaltato la dottrina Bush: niente più invasioni e guerre guerreggiate, il dominio militare degli Stati Uniti ora viene esercitato con l’eliminazione selettiva dei terroristi (grazie a droni telecomandati) e la guerra informatica (come il virus Stuxnet che ha distrutto i piani nucleari dell’Iran).
Le due decisioni di politica interna sono state prese nel primo biennio (2009-2010), quando il presidente controllava largamente i due rami del Congresso. Ma sono state il canto del cigno del primo mandato. Nelle elezioni di medio termine del novembre 2010 i repubblicani hanno strappato il controllo della Camera dei deputati ai democratici e Obama è diventato un presidente dimezzato. Da allora ha combinato poco. Le promesse fatte in campagna elettorale sul riscaldamento globale, la nuova legge per dare la cittadinanza ai 12 milioni di immigrati fuorilegge e l’abolizione degli sconti fiscali ai super-ricchi (varati nell’era Bush) sono state bloccate da un partito repubblicano egemonizzato dai Tea Party. Da quel momento l’uomo più potente del mondo è diventato prigioniero politico del Congresso. I repubblicani hanno bloccato ogni iniziativa di spesa e lo hanno accusato di avere fatto esplodere il debito pubblico. Se saliranno alla Casa Bianca – hanno promesso agli elettori – aboliranno l’odiata riforma sanitaria.
I sondaggi danno loro ragione. Il 60% degli americani pensa che il paese stia andando nella direzione sbagliata, (anche se 48 cittadini su cento approvano il lavoro del presidente e altrettanti lo disapprovano). Ma andando a spulciare i sondaggi sui singoli temi si scopre che la grande maggioranza pensa di pagare troppe tasse, vorrebbe diminuire la spesa pubblica e non ama la riforma sanitaria. La luna di miele del presidente con gli americani è finita da un pezzo come la sua speranza di un governo illuminista che superasse le divisioni ideologiche del paese. Obama può permettersi di essere favorevole al matrimonio gay perché la sua è solo un’affermazione di principio: sono gli Stati e non il Congresso a legiferare in merito in un paese federale come gli Usa.
Obama è impotente perché il meccanismo elettorale è stato progettato per limitare il potere reale della Casa Bianca e riportare continuamente la palla al centro dello schieramento politico. Il rinnovo totale della Camera ogni due anni significa che qualunque presidente abbia velleità radicali può essere rapidamente riportato alla normalità da un elettorato che è per sua natura moderato e centrista. È quello che è accaduto nel novembre 2010. Una riforma radicale come quella sanitaria e lo straordinario intervento federale per salvare l’economia sono stati visti dagli elettori come il preambolo del socialismo. Niente da fare. Blocchiamo tutto.
Altro discorso in politica estera. In questo caso la qualifica di Commander in Chief ha un valore effettivo, nel senso militare del termine. Nessuno discute le decisioni del presidente. Il suo potere è reale. Recentemente una lunga inchiesta del New York Times ha informato gli americani che ogni martedì Barack Obama incontra uno staff di una ventina di esperti per stabilire a quali terroristi (sparsi per il mondo) applicare un’immediata sentenza di morte. Il 19 gennaio 2010, per esempio, Obama firmò una condanna a morte per un manipolo di 15 persone sospettate di essere membri di Al Qaeda in Yemen. Alcuni di loro erano americani: tra gli altri due teenager, compresa una ragazzina di 17 anni. Un drone si alzò in volo e li ammazzò tutti.
È il presidente a prendere queste decisioni. È lui a emettere la sentenza di morte. Non ci sono tribunali di appello. Nessun altro presidente aveva spinto la sua responsabilità fino a questo livello. E nessuno aveva fatto della kill list uno strumento primario di lotta al terrorismo. Le tecnologie avanzate e il disastro delle guerre in Iraq e in Afghanistan hanno spinto Obama in questa direzione. E per ragioni etiche, ha detto ai suoi collaboratori, il presidente non può delegare ad altri il peso di certe decisioni. Ha studiato gli scritti di Sant’Agostino sulla guerra e si è convinto che è il presidente a doversi assumere la responsabilità morale di tali gesti. Se un drone si deve alzare in volo per colpire un bersaglio in Pakistan, o nello Yemen, è a lui che spetta l’ultima parola. E non solo nel caso di Bin Laden. Questa consuetudine ha innervosito i liberal, ma ha impressionato i falchi. Persino Mitt Romney, il suo avversario nella battaglia per la Casa Bianca, lo ha definito “Dottor Stranamore”.
La politica negli Stati Uniti sembra costruita per limitare il potere del presidente in politica interna e dargli carta bianca nelle questioni di sicurezza del paese. Le due cose si tengono. La libertà dell’individuo all’interno del paese coincide con la libertà del sistema di difendersi dalle minacce interne. Che cosa accadrà dopo il 6 novembre? Se le elezioni andranno secondo le (incerte) previsioni disponibili, Obama vincerà con una maggioranza risicata, i democratici confermeranno la loro (scarsa) maggioranza al Senato e i repubblicani prenderanno alla Camera con un discreto margine. Risultati simili faranno del presidente un’anatra zoppa fin dal primo giorno del secondo mandato.
Difficilmente riuscirà a imporre un’agenda democratica in politica interna: il presidente più progressista del dopoguerra ha le mani legate.
Il 30 maggio il New York Times è uscito con un articolo (Too Much Power For a President) in cui stigmatizzava il fatto che da oltre tre anni, ogni martedì, il presidente si sieda nella Situation Room a firmare condanne a morte senza processo, talvolta anche nei confronti di americani minorenni. Ma si tratta di un potere che esercita solo verso il resto del mondo. All’interno dei confini i Padri Fondatori degli Stati Uniti hanno creato un sistema assai regolato che modera con grande abilità quel potere. La sua onnipotenza vale solo al di là dei confini. L’uomo che può scatenare una flotta di droni per uccidere centinaia di terroristi in Pakistan non è in grado di diminuire di un punto le tasse ai miliardari.