Nella Bassa, dove il cielo è umido e la terra trema

Nella Bassa, dove il cielo è umido e la terra trema

CAVEZZO (MO) – Il contegno di certe signore non vacilla nemmeno mentre la terra trema. Parchetto giochi di Cavezzo, poco più in là sulla strada si affacciano le case o ciò che ne resta – o le macerie e nient’altro. Un’anziana passeggia all’ombra assieme alla figlia che la prende sottobraccio: addosso ha i vestiti del giorno prima, che sanno di piccole cose e intimità casalinga. Pantofole ai piedi, un grembiule e una giacchetta di lana sulle spalle. Guarda un po’ in terra, quindi alza la testa e incrocia lo sguardo di chi l’osserva discretamente e l’espressione del volto non cambia di una ruga. Si va ad accomodare su una panchina assieme ad altre donne, al riparo dal sole che batte forte già dal mattino, sotto un pino: chiacchierano, perdendosi in ragionamenti sparpagliati mentre davanti a loro un’altra signora è al telefono e alza il tono della voce perché non capisce chi ci sia dall’altra parte: «Ma chi parla? Chi parla?». La fissa una vecchia sulla carrozzina che in dialetto si chiede cos’abbia da urlare così tanto.

È la tensione che si snoda lungo il corpo: c’è chi confessa che è come se sentisse le proprie ossa tremare in continuazione e chi evidentemente reagisce alla paura infastidendo senza accorgersene la quiete altrui. Ci sono anche dei bambini che fanno cagnarra, che si rincorrono, si arrampicano per gli scivoli o scendono e salgano sull’altalena. In paese sono arrivate le troupe televisive italiane, spagnole e inglesi, Cavezzo non è più la stessa, ma in quell’angolo verde conserva la quotidianità e con essa la sicurezza che certe cose rimangono: le pantofole della nonna, il grembiule legato in vita e lo scialletto.

Muovendosi in direzione Mirandola, si lascia sulla destra Medolla con i capannoni crollati a terra. La strada deve essere nuova, ha l’asfalto di un nero lucido: una via dritta che taglia in due i campi coltivati a frumento, mentre sulla strada stretta che conduce a Cavezzo si respira aria di fieno appena tagliato. Il centro del borgo è chiuso, «tutta questa è zona rossa» indica con la mano un uomo che passa in bicicletta lungo i viali dove i semafori sono spenti: si contano poche macchine in giro, non occorre nemmeno un vigile per regolare il traffico. Tra le vie strette che convergono verso il duomo si intravede la torre campanaria. Poi, dove comincia il pavé come si conviene ad una cittadina che vuole mettere in mostra la propria eleganza, solo transenne alte. Non sono i giorni per camminare sotto i portici, sedersi al bar, giocare una partita a carte e passare dal tabaccaio per il pacchetto di sigarette. 

C’è solo un piccolo baretto aperto, in mezzo ad un giardino pubblico, punto di ritrovo dell’emilianità. Una ragazza se la prende con i giornalisti, il tipo accanto rievoca gli attimi in cui la terra ha nuovamente sussultato e lo fa allargando le braccia, «Dio, non me ne sono mica reso conto subito, perché sai un po’ ci fai l’abitudine, no?». Il barbuto titolare si fuma un toscano e rimprovera il cane che continua ad abbaiare. Ad un tavolo il figlio cerca di convincere la madre a seguire la moglie nella casa in collina e chiede aiuto ai figli, sfruttando l’attimo in cui la nonna è distratta, e i nipotini obbediscono all’ordine: «Tanto sei comunque vicina a casa, ci metti poco a tornare». Missione fallita, tant’è: che le piaccia o meno seguirà la nuora. «Sarebbe il caso che cominciate a parlare la stessa lingua, voi due», taglia poi corto l’uomo: la nuora e la suocera, ennesima sicurezza che certe cose restano.

Abbandonata l’arteria principale che conduce a Quistello, ci si immette in un lungo sentiero che è una curva dopo l’altra. Si sfiorano abitazioni di campagna che hanno resistito all’urto, altre che invece non ce l’hanno fatta e nel cortile sono ammassati i mattoni. In un angolo chi vi abita ha piantato una tenda e cerca di rilassarsi sdraiandosi all’ombra sull’erba. Il cielo è intriso di umidità, costante meteorologica della zona: d’inverno è nebbia, d’estate si trasforma in afa. Dalle rive dei fossi si fa largo il profumo dei giaggioli. Il Po è distante, in compenso la strada si arrampica per un alto argine di un canale colmo d’acqua. Pochi chilometri e si arriva a Moglia, uno dei comuni del Mantovano più duramente colpiti dal terremoto.

I luoghi nella Bassa non sono comuni. Quando il calendario segna il passaggio nel pieno della bella stagione e il solleone ormai picchia dritto sui tetti delle abitazioni, le strade si svuotano perché la gente davvero va a rincorrere il fresco, sbarrando le finestre. Stavolta l’aspetto del primo pomeriggio è spettrale perché molta gente le case le ha abbandonate: anche qui il centro è sigillato, la via principale che porta alla chiesa non è percorribile, per arrivare dall’altra parte bisogna aggirare l’intera zona e dove si palesa la possibilità di una scorciatoia un’addetta delle Protezione civile avverte che è vietato transitarci: «C’è del materiale pericolante», dice indicando le tegole.

Una coppia seduta in auto discute. «Come farà nostra figlia a fare gli esami?», si domanda la moglie. «Li facevano in tempo di guerra, vuoi che non li facciano ora?», replica il marito. Intanto una madre e la figlia in bicicletta vanno alla ricerca della micia scappata: «Nina? Dove sei? Nina?». Brevi comparse nella solitudine. Alla fine del peregrinare si giunge a destinazione: l’altro lato del centro storico, dove sosta qualche camioncino della televisione. Gli inviati e gli operatori attendono un qualcosa in silenzio. Degli anziani li osservano scambiandosi qualche battuta davanti al bar: dietro a quegli affari di plastica e ciniglia che fungono da tendina, la porta è chiusa, ma non importa. I vecchi ozieggiano al bar, cascasse il mondo. 

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