“Anyone for Tennis?” All’indomani dell’ennesima eliminazione ai rigori, il geniale titolista del Sun consolava così i tifosi inglesi colpiti al cuore dal genio di Andrea Pirlo. L’uscita della nazionale dagli europei di calcio la sera di domenica 24 giugno lasciava spazio al sollievo del primo lunedì mattina di Wimbledon. Chi voleva poteva distrarsi sui prati di casa, senza coltivare, sia chiaro, eccessive illusioni sulle possibilità dei tennisti britannici.
Perché se i calciatori non portano a casa una coppa da quarantasei anni (l’unica e la più ambita, quella del mondo, fu vinta nei mondiali molto casalinghi del ‘66), un vincitore britannico nel torneo di tennis che conta di più manca addirittura dal 1936.
Quest’anno, però, nel solenne venerdì che apre le porte della finale di domenica 8 luglio, il beniamino di casa Andy Murray ha buone possibilità di farcela contro il francese Jo-Wilfried Tsonga. E arrivare così a una passo dalla leggenda.
L’ultimo a alzare al cielo il trofeo d’argento fu Fred Perry, un nome che per quasi tutti i viventi è quello di un logo (due rami d’alloro) che si scontra nei negozi con il coccodrillo di René Lacoste (vincitore sui campi londinesi nel 1925 e nel 1928). Quella domenica di luglio del 1936 Perry sconfisse un grande tedesco, il barone Gottfried von Cramm e sul cielo sopra allo stadio accanto alla Union Jack sventolava la svastica (per la quieta soddisfazione, s’immagina, dei non pochi simpatizzanti nazisti che si annidavano prima della guerra nella upper society britannica).
Storia gloriosa, certo – Perry nel 1936 vinse il terzo titolo consecutivo, e fu il primo a vincere di seguito i quattro tornei dello Slam – ma troppo remota. Dopo di lui i britannici nell’albo d’oro del singolare maschile hanno iscritto solo un finalista, Henry “Bunny” Austin – più noto per aver introdotto gli short sui campi da tennis – che nel 1938 perse contro l’americano Donald Budge.
A Londra si sono talmente abituati a non vincere che hanno fatto del record negativo la metafora di una storia di successo, quella della City, segnata appunto dal “Wimbledon effect”: un campo di gioco prediletto dalla finanza globale, ma senza veri protagonisti britannici. Il contrario per intenderci del patriottismo economico dei colbertisti francesi (che tennisticamente si aggrappano all’exploit di Yannick Noah nel 1983 a Parigi, per non essere costretti a rimpiangere l’epopea dei moschettieri Lacoste, Borotra e Cochet degli anni ’20) – e del sumo giapponese.
I britannici però non hanno mai rinunciato all’idea di vedere uno dei loro premiato la prima domenica di luglio dal Duca di Kent, presidente dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club (anche se a croquet nel club che ospita il torneo non si gioca più dal 1882). Per rispettare la tradizione bastano le fragole con la panna sugli spalti, l’inchino ai reali seduti in tribuna, e le divise da gioco ancora immacolate (o quasi).
Non è detto che un giocatore di casa per principio non possa vincere. E da anni il Regno scommette sulla “grande speranza britannica”, il titolo che accompagna come una maledizione il miglior talento del momento, fino a quando la giovinezza sfiorisce e la speranza passa a un nuovo pretendente. Senza che buona parte dei tifosi si accorga della successione.
Così ancora oggi, quando gioca la grande speranza in carica Andy Murray, c’è sempre qualcuno che dagli spalti gli urla “Come on, Tim”, come se sul campo ci fosse ancora Tim Henman, che i britannici avevano soprannominato Timbledon, perché davvero sembrava cresciuto sui campi dell’Oxfordshire solo per vincere quel torneo. Henman era un erbivoro di talento (ma arrivò in semifinale anche sulla terra del Roland Garros e sul sintetico degli US Open) che giocava un purissimo serve-and-volley. Arrivò quattro volte in semifinale (1998, 1999, 2001, 2002). Non andò mai oltre. E il testimone è passato allo scozzese Andy Murray, più forte di Henman, salito fino al n.2 della classifica Atp (oggi è quarto) e per tre volte di seguito sfortunato semifinalista a Wimbledon.
Questa è la quarta possibilità – quante ne ha avute Henman – ma i britannici poco scaramantici sono convinti che potrebbe essere la volta buona. Il primo anno Murray era ancora immaturo, e nei due successivi incappò in un inaffrontabile Nadal. Quest’anno però lo spagnolo è uscito presto, e Murray sta giocando il suo miglior tennis. Nei quarti di finale ha surclassato David Ferrer e ora si trova di fronte il francese Tsonga, molto forte sull’erba, ma sconfitto da Murray in cinque dei sei precedenti incontri.
Il traguardo probabilmente è ancora irraggiungibile, perché domenica dall’altra parte della rete ci sarà Roger Federer o Novak Djokovic. Arrivare all’ultimo atto però sarebbe già un passo nella storia, il modo migliore per lanciare l’estate olimpica. E a questo punto farsi rovinare la festa da un francese sarebbe uno smacco insostenibile.