Lo scorso 19 giugno, al G20 di Los Cabos (Messico), i Brics si sono impegnati a fornire 75 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale (Fmi) per aiutare gli stati a rischio default dell’Unione europea: Grecia, Spagna, Italia. La fetta indiana, ha annunciato Manmohan Singh seduto al tavolo dei paesi che contano, sarà di 10 miliardi di dollari. Le parole del premier buon samaritano, arrivate in India, hanno scatenato un putiferio.
I giornali nazionali da settimane sono chiamati ad elencare i dati terribili che stanno portando l’India – dicono loro – sull’orlo del baratro finanziario: rupia sempre più debole nei confronti del dollaro (il punto di non ritorno sono 60 rupie per un dollaro, ora siamo intorno alle 57), crescita ferma al 5,6 per cento, contro le previsioni ottimistiche di almeno un 7 per cento, downgrade del rating da parte delle agenzie internazionali, inflazione fuori controllo, aumento del prezzo della benzina, senza contare i problemi atavici di denutrizione, igiene, acqua potabile. L’annuncio del premier Singh, inserendosi in questo quadro di previsioni apocalittiche, è stato accolto dalla pancia dell’opinione pubblica come un insulto, un affronto del governo che predica austerità e tagli, ma in sede internazionale scialacqua i soldi dei contribuenti indiani per aiutare il ricco occidente.
Le cose, in verità, non stanno proprio così. Ma l’episodio ha inevitabilmente riportato a galla ricordi non molto lontani nel tempo. Era il 1991, l’India era sull’orlo del baratro ed, esaurite le alternative, andò a bussare alla porta del Fmi.
QUANDO I POVERI ERANO LORO
L’economia socialista indiana, modellata sullo stampo sovietico, viene investita violentemente dal corso degli eventi: crolla il Muro, scoppia la Guerra del Golfo, il prezzo del greggio sale alle stelle, le esportazioni sono ai minimi storici e le casse di Delhi vengono prosciugate dalle importazioni. L’India, con 72 miliardi di dollari di debiti esteri, è il terzo paese debitore al mondo – dietro Brasile e Messico – e a gennaio del 1991 si ritrova con 1,2 miliardi di dollari di riserve in valuta estera. Pochi mesi dopo il governo calcola che i soldi rimasti nei forzieri della Royal Bank of India (la Banca centrale indiana), pagando le importazioni energetiche necessarie per far funzionare gli ingranaggi indiani, sarebbero bastati ancora per poche settimane. Poi sarebbe stato default.
Il premier Chandra Sekhar si rivolge allora alla Banca Mondiale ed al Fmi, accedendo immediatamente ad un prestito di 2,2 miliardi di dollari. Le condizioni imposte dal Fmi sono drastiche: riduzione del deficit, apertura del mercato indiano alla concorrenza straniera, taglio dei sussidi governativi, liberalizzazione degli investimenti, snellimento delle procedure per ottenere le licenze per aprire attività in territorio indiano.
Ashis Nandy, analista del Centro studi per le società in via di sviluppo di Nuova Delhi, interpellato dal New York Times, commentava: «Siamo davvero disturbati da queste condizioni imposte su di noi. Saranno viste come un’interferenza nell’autonomia indiana». Le misure imposte dal Fmi andavano ad agire su un apparato statale ed una classe dirigente figli delle teorie socialiste di Nehru, primo premier dell’India indipendente, ideologicamente molto vicino all’Unione sovietica e spiccatamente anti-americano.
Apertura del mercato interno e liberalizzazioni erano parte di una terapia d’urto tremenda che andava a modificare non solo l’assetto economico del Paese, ma anche le fondamenta ideologiche lasciate da uno dei fautori dell’unità indiana. Ulteriore smacco all’orgoglio indiano, il Fmi pretende che 67 tonnellate delle riserve auree di Delhi vengano aviotrasportate in Europa come garanzia. Il 21 ed il 31 maggio due aerei pieni di dobloni indiani decollano alla volta di Londra, rappresentazione plastica e dal sapore coloniale dell’abdicazione del governo indiano allo strapotere straniero. L’onta sarà tale che il già traballante premier Sekhar sarà costretto alle dimissioni pochi giorni dopo.
A gestire la transizione dell’economia indiana fianco a fianco con i tecnici del Fmi sarà, appuntato dal nuovo premier Rao, il ministro delle Finanze Manmohan Singh, oggi primo ministro. La medicina amara occidentale, a 21 anni di distanza, ha decisamente funzionato. Oggi l’India, seppur un po’ malconcia, è una potenza economica riconosciuta. Nel 1991 le riserve in valuta estera di Delhi ammontavano a 1,2 miliardi di dollari; oggi sono 288,63.
IL TEMPO DEL RISCATTO
La vendetta morale è arrivata nel novembre 2009, quando l’India bussò di nuovo alla porta del Fmi, ma questa volta con la valigetta dei contanti in mano: 7,4 miliardi di dollari per ricomprarsi “il suo oro” con gli interessi, 200 tonnellate. Ed è sempre la vendetta a tenere banco nei commenti apparsi in queste settimane circa l’offerta da 10 miliardi di dollari di Singh. Le reazioni abbastanza scomposte di Rajiv Dogra sul Daily News and Analysis e di Prabhu Chawla, direttore del New Indian Express fanno leva sui sentimenti più rancorosi, mettendo assieme affermazioni dogmatiche – «l’Europa non ha mai aiutato l’India in tempi di crisi» – a giustificazioni ironicamente spirituali – «È tutto parte del nostro Karma gratuito, per questo gli diamo 10 miliardi di dollari senza chiedere nulla in cambio», ricordando quando 21 anni fa, a parti invertite, «l’occidente impose condizioni umilianti su di noi».
IL SOFT POWER DI UNA VERA POTENZA MONDIALE
Ma la decisione indiana di allinearsi alle promesse dei Brics, che uno sconsolato Manmohan Singh ha tentato di spiegare alla stampa rientrato a Nuova Delhi, è da leggersi in realtà come un magistrale esempio di soft power. I 75 miliardi di dollari dei Brics – 43 dei quali messi sul tavolo dalla Cina – saranno utilizzati solamente quando uno degli stati dell’Ue dichiarerà default e ricorrerà alla transizione guidata del Fmi: un’eventualità che è ragionevole sostenere sia abbastanza improbabile, anche alla luce dei colloqui bollenti di questi giorni a Bruxelles. Fino a quel momento i dollari dei paesi in via di sviluppo saranno al sicuro a casa loro. Nessun regalo.
La presa di posizione dei Brics a Los Cabos, inoltre, conteneva un sottotesto molto chiaro: i soldi li mettiamo a disposizione, ma pretendiamo un’accelerazione delle modifiche della governance internazionale per dare più voce ai paesi in via di sviluppo. Un obiettivo per il quale i Brics fanno pressioni da almeno due anni, ottenendo vaghe promesse da parte di Fmi – tradizionalmente controllato dall’Europa – e dalla Banca Mondiale – tradizionalmente controllata dagli Stati Uniti.
L’India in particolare vuole mostrarsi un membro potente e responsabile della comunità internazionale, in cerca di un tanto agognato seggio presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Con buona pace del populismo spiccio di una parte della società indiana, se l’India davvero vuole aspirare ad un ruolo di primo piano a livello internazionale, in momenti come questo deve pensare in grande e, come ha fatto sapientemente Singh, mostrare i muscoli. Ovvero il portafogli.