Il segretario del maggior partito della sinistra sparisce. Perché è accaduto e quali conseguenze la scomparsa avrà, è raccontato in “Il trono vuoto”, primo romanzo di Roberto Andò, edito da Bompiani, vincitore del Campiello Opera Prima e del Premio Vittorini.
Palermitano classe 1959, regista di cinema, teatro di prosa e di lirica, Andò ha deciso di cimentarsi nel racconto letterario, che presto diventerà un film: le riprese cominceranno a fine estate, uscita nelle sale prevista in primavera.
L’immagine del trono immediatamente rimanda all’idea di potere politico. Qui però si scopre che tale potere si è ormai svuotato. «Trovo che un leader di partito sia oggi diventato un personaggio congeniale alla narrativa – spiega Andò – Perché la politica è il più limpido schermo dove guardare la vita che sfugge a se stessa, la velleità che non si trasforma in realtà, il fallimento come destino di ogni progetto. Entrare nell’intimità di un politico vuol dire toccare con mano questo vuoto esistenziale, l’esitazione come destino. Perché, a differenza dei leader del passato, dotati di un piglio deciso per quanto talvolta impenetrabile, i leader di oggi sono i campioni dell’indecisione».
Lei fa dire a un suo personaggio che la politica è un bluff, un po’ come il cinema: «Il bluff e il genio vi coesistono da sempre, e spesso è difficile distinguere».
Il cinema mi sembra corra lo stesso pericolo della politica rispetto alla realtà: di non toccarla, condannandosi a essere un trastullo per cinephiles o al massimo un esercizio di necrologia.
Un segretario del partito di opposizione era uno dei personaggi di un grande romanzo di Leonardo Sciascia, “Il contesto”, da cui Francesco Rosi ha tratto uno dei suoi capolavori, “Cadaveri eccellenti”. Lì però la dimensione era tragica.
Sì, era naturalmente un’epoca diversa, ugualmente cupa. Io ho cercato di suonare la nota della leggerezza, come se fossimo in una commedia di Lubitsch, pur mantenendo la complessità di questi anni.
Lei ha avuto un forte rapporto con Sciascia. L’ha influenzata la sua opera per questo lavoro?
Non direttamente. Ma ho spesso ripensato a uno dei suoi ultimi romanzi, “Il Cavaliere e la Morte”, che, se non il più bello, è certamente il più profetico, perché preconizza lo sfascio di questi ultimi vent’anni, con un potere che assume una dimensione post-politica, insondabile. Sciascia, col solo Pier Paolo Pasolini, è stato l’unico capace di restituirci l’immagine di un potere come costruzione mafiosa, che ha tratti metafisici ma che diventa una concreta lettura di cosa sia questo Paese.
Lei scrive: «In Parlamento ci sono la mafia e la camorra, e c’è il politico che fa da tramite per i loro affari, ma, ed è qui il bello, c’è anche il loro avvocato difensore. È la prima generazione di politici postbellici ad avere immaginato un ciclo in cui sono rappresentati tutti gli anelli della catena, dal delitto alla sua sparizione legale».
L’eredità di Berlusconi mi sembra sotto gli occhi di tutti. E se è vero che la mafia esisteva anche prima nelle istituzioni, va anche aggiunto che la Democrazia cristiana ha comunque mantenuto una separazione tra i campi. Poco tempo fa, ho avuto un invito da Giuseppe Tornatore per una proiezione privata di “Todo modo”, il film di Elio Petri, tratto da Sciascia, che era un potente atto d’accusa alla Dc: siamo a metà anni Settanta, e tutte le malformazioni di quel partito sono ormai già incancrenite. Ecco, in quel film c’è l’esatta rappresentazione della politica come cosca. Alla proiezione c’erano anche Rosi, Scola e altri, e tutti siamo rimasti impressionati dalla modernità del racconto. Ma è pur vero che quel sistema è stato molto perfezionato. Senza contare che un film del genere oggi sarebbe impossibile anche solo raccontarlo in due parole a un produttore: non verrebbe mai realizzato.
Qual è il suo giudizio sulla sinistra attuale?
Io credo che sia avvenuta soprattutto a sinistra quella colpevole fuga dalla politica di cui parlo nel mio libro. Nonostante mi sforzi, non ho per esempio capito se la sinistra abbia davvero un piano per l’economia. Ci vorrebbe un altro passo.
Per esempio Renzi?
No, per carità. La politica non può essere una performance da attori. Prenda Vendola: linguaggio immaginifico dietro cui non compare alcun pensiero politico, pur essendo lui una personalità indubbiamente interessante.
Bersani?
Ottimo ministro dell’Industria, zero capacità di leadership. Brava persona, ma non basta.
Veltroni?
Ottimo ministro della Cultura, ma l’emblema forse di cui colui che fugge, che lascia il trono vuoto: lo fece coi Ds, lo rifece col Pd. Un leader non scappa. Stesso problema di Cofferati: un altro che ha avuto per un attimo i destini della sinistra in mano, ma poi è fuggito, a fare il sindaco di Bologna.
D’Alema?
Ottimo ministro degli Esteri, D’Alema è senza dubbio l’uomo che con più coerenza nella sua carriera ha bloccato la sinistra, secondo una visione machiavellica della politica, portatrice di sconfitte a ripetizione.
Nella scelta di raccontare un personaggio di potere che si sottrae al suo compito, è stato influenzato dal pontefice morettiano di Habemus Papam?
Il rifiuto del Papa raccontato da Moretti era dovuto al non sentirsi degno di un potere. Il mio personaggio si sottrae al potere per profonda disistima delle persone che lo circondano, delle quali vuol palesare l’inadeguatezza, ma poi se lo riprende, il suo ruolo. In comune, forse, tra il film e il mio libro, c’è l’idea di un mondo nel quale viene selezionata la mediocrità: è scelto non il più bravo, bensì il più innocuo. Ma questo è un problema non solo italiano.
Per esempio?
Obama, per esempio: una figura simbolo, che ha segnato un momento di grandi speranze non solo in America, ma che su molte questioni è apparso come un Vendola d’oltreoceano, e che avrà grandi difficoltà a farsi rieleggere. E la Merkel: non è forse l’immagine della mediocratizzazione della politica? La Francia è da Mitterrand che non conosce un vero leader. L’Inghilterra chi ha avuto? Certo, Blair. Ma quelli che erano i suoi elettori, la gente di sinistra, non lo ricorderà affatto bene: il mio amico Harold Pinter (grande drammaturgo, premio Nobel per la Letteratura nel 2005, ndr) lo considerava nient’altro che un mascalzone.
Chiudiamo col cinema. Lei si appresta a girare un film dal “Trono vuoto”. Come giudica la condizione della settima arte in Italia oggi?
Purtroppo scontiamo l’incapacità di creare un sistema produttivo. Prenda la Francia: nel giro di pochissimo tempo ha sfornato due film straordinari come “The Artist” e “Quasi amici” che hanno sbancato e che aprono la strada all’estero al resto per la produzione cinematografica nazionale. In Italia c’è una grande cecità politica nel non capire le occasioni di sviluppo che il cinema produce.
Per fortuna alcune nostre produzioni riescono a imporsi: basta pensare al recente successo a Cannes del “Reality” di Garrone.
È proprio questo il problema: abbiamo un’ottima drammaturgia che non diventa una grande industria. I talenti ci sono: oltre Garrone, penso a Sorrentino, probabilmente il più interessante dei nostri autori. Penso che lui raccolga meglio di tutti la grande lezione di Francesco Rosi, che – io credo – si è imposto come l’autore più influente sul cinema italiano contemporaneo: il realismo visionario di Rosi è forse la chiave più appropriata per raccontare il nostro Paese. Perché è vero che il nostro cinema ha un’ipoteca realista, ma in fondo è la sua traccia romanzesca che lo ha reso e lo rende unico nel mondo.