Quanta gente sarà morta dal ’94 a oggi, quanti elettori ci saremo persi per strada, quante anime sventurate non avranno più la gioia rinnovata d’inerpicarsi per quella mulattiera polverosa dell’Eterno Ritorno alla cui cima Coppi ritroverebbero la spiritualità dimenticata del santuario berlusconiano?
Perdonerete l’immagine ciclo-clericale, ma non siamo riusciti a sottrarci (noi e il nostro povero cuore) a quel cicinin d’emozione immediata per una notizia che ci siamo coltivati unicamente come purissima e forse illusoria speranza, da feticisti autentici (e della primissima ora), e che invece in queste ore si concretizzerebbe come ipotesi verosimile e peraltro non smentita dall’interessato. Il quale, viaggiando ormai sui 76 anni e avendo un cazzo da fare nemmeno a casa, ha pensato utile per sé e per il Paese di riproporsi come la sentinella più ortodossa dell’immarcescibile, dell’immutabile elevato a sistema.
Se Prodi, nella felice trasposizione guzzantiana, era il Semaforo, fermo, immobile, avvitato su se stesso, qui siamo nei pressi del Nuraghe, quella dimora fortificata e secolare che in qualche modo ti riporta al calore familiare e ti fa sentire anche più protetto.
Sarebbe irrispettoso – e persino un po’ ingenuo – muovere le proprie reazioni sull’onda di un banale: non ci posso credere. E neppure pensare che la terza età – che per definizione chiamiamo vecchiaia – abbia come contropartita della vita l’inevitabile ritiro ai giardinetti in compagnia di un simpatico cagnetto, regalo dei nipotini. Letti appena un paio di pezzi di quei mille che il professor Veronesi quotidianamente scrive per i giornali, in cui ci racconta che la mente umana raggiunge ormai il suo apice intellettuale intorno ai 124 anni, anche il più rincoglionito dei vegliardi si convincerebbe che la vita è adesso e va mangiata al volo. Dunque, perché Berlusconi no, che quando si voterà ne avrà solo 77?
Capiamo, peraltro, il suo stato d’animo, ora che è anche ossessionato dal diventar povero: se affida il partito all’Angelino senza quid alle urne prende il cinque per cento e l’indomani (lui pensa così) quei maledetti giudici gli spappolano le aziende (che non vanno benissimo di loro) e magari una bella mattina gli si presentano anche sull’uscio di casa. Come scrive il direttore della Stampa, Mario Calabresi, l’obiettivo sembra chiaro: «…essere ancora presente in Parlamento con una forza politica di almeno il 15 per cento che lo garantisca e gli permetta di essere azionista di un eventuale futuro governo di coalizione. Una sorta di assicurazione sulla vecchiaia».
Resterebbe da capire cosa ne viene a noi elettori, a noi appassionati di lui (lo siamo da sempre, sotto il profilo scientifico), cosa ne può venire al Paese, cosa alla modernità e cosa – soprattutto – a quell’elemento umano ma molto politico che scuote le società in via di evoluzione e cioè la speranza del cambiamento. Rispondere poco o niente sarebbe semplice e sin troppo riduttivo, e in fondo la dittatura del voto, con i suoi nudi risultati, potrebbe anche affossare qualsiasi visione filosofica della vicenda. E restituire l’Eterno Ritorno alla gloria nazionale e alla Storia con la S maiuscola.
Noi qui, invece, si cerca di identificare un altro aspetto di questa storia infinita e ripetuta, che forse è anche il più terribile: la noia. La noia come lato distruttivo delle nostre identità, come tomba d’ogni sollecitazione nervosa, la noia come punizione dolorosa per chi ha molto peccato, la noia come ispirazione politico-criminale di un disegno che non ha mai fine, la noia di rivedere sempre quelli, la noia di aver già visto tutto, sapendo che non si potrà vedere altro che quello. La noia che in linea di principio ci saremmo anche meritati (o ci saremo anche meritati?), ma che alla fine uno spera finisca, una volta per tutte.
E invece no: due palle.