BRUXELLES – Nel suo articolo “Il patto per la crescita Ue? Sembra la (già dimenticata) Banca del Mezzogiorno”, Fabrizio Goria si chiede giustamente che fine abbiano fatto le misure per la crescita annunciate dopo il Consiglio europeo di fine giugno. Centoventi miliardi che, a ben guardare, sembrano perlopiù aria fritta. L’aumento del capitale della Bei di 10 miliardi con l’obiettivo di «accrescerne la capacità totale di prestito di 60 miliardi di euro, liberando in tal modo fino a 180 miliardi di euro», si scontra con l’unanimità richiesta dallo statuto della Banca.
Nel corso del Consiglio europeo di giugno, il lancio della fase pilota dei project bond è entrata nel pacchetto di misure finanziarie per stimolare la crescita, con la previsione che la somma stanziata sia accantonata dal bilancio Ue a garanzia delle operazioni che verranno condotte dalla Banca europea per gli investimenti (Bei). Tale somma dovrebbe permettere di mobilitare, grazie all’ “effetto leva”, fino a 4,6 miliardi di euro in investimenti, a fronte di un ammontare complessivo di investimenti in grandi infrastrutture europee, necessario entro il 2020, stimato dalla Commissione in una cifra che si aggira intorno ai 1.500 miliardi di euro. Al momento, si tratta, insomma, di una misura che serve a testare la reazione del mercato. Così, le stime della Commissione sull’effetto moltiplicatore devono intendersi “fino a prova contraria”.
La terza misura è lo sblocco dei fondi strutturali per un totale di 55 miliardi di euro. Fabrizio Goria si chiede «Tanto? Poco? Considerata l’attuale congiuntura e dato il profondo periodo di cambiamento che sta vivendo l’eurozona, troppo poco».
In realtà, la domanda da porsi sarebbe: da dove viene questa cifra? Già, perché ha lasciato attoniti non pochi, a cominciare dal Presidente della Commissione europea Barroso che, al Consiglio europeo ha presentato un suo paper in cui, sul tema Fondi strutturali, questa cifra non compare.
Persino i diplomatici interpellati non hanno saputo offrire una risposta. Abbiamo dovuto scomodare le nostre fonti in Consiglio per scoprire l’arcano: i 55 miliardi parlano francese.
A fine giugno, il neo eletto Presidente Hollande, per ragioni di politica interna, doveva dimostrare di rappresentare davvero “l’alternativa francese” pro-crescita al rigore tedesco. Così – riferiscono le nostre fonti – ha mobilitato il suo staff dicendo «dobbiamo mettere in piedi un Patto per la crescita, trovatemi delle cifre». I suoi, invece di consultare la Commissione europea, hanno scoperto l’uovo di Colombo, ovvero che la tranche del 2013 dei Fondi Strutturali deve essere ancora impegnata, dunque è riprogrammabile: si tratta, in effetti, di 50 miliardi, aumentati di 5 con un colpo di penna per raggiungere i 120 miliardi complessivi del Growth Compact. Secondo questa impostazione, la tranche italiana si aggira intorno ai 4 miliardi, visto che il contributo comunitario previsto per l’Italia nel periodo 2007-2013 è di circa 28 miliardi. Tuttavia, si tratta di cifre che, secondo gli addetti ai lavori della Commissione, sono spannometriche e, quindi, praticamente farlocche.
Basti pensare ai dati del nostro Paese sulla riprogrammazione. A fronte di ritardi e inadempienze, l’Italia sta comunque riprogrammando in modo strutturato, grazie al Piano d’Azione messo in piedi dal ministro Barca, presentato alla Commissione nel novembre scorso: all’attivo due riprogrammazioni, per un totale di quasi 6 miliardi, e una terza e ultima in programma a settembre.
Ma se anche fossero veri, i 55 miliardi, ha ragione Fabrizio Goria a dire che sarebbero insufficienti per realizzare gli obiettivi indicati dal Consiglio europeo di fine giugno. Occorrerebbe allora guardare alla prossima programmazione, perché i Fondi strutturali sono assegnati ai programmi operativi nazionali e regionali all’inizio di ogni ciclo finanziario di 7 anni dell’UE. Il negoziato per quello 2014-2020 è già iniziato e si intreccia fatalmente con quello per il bilancio pluriennale dell’UE (Quadro Finanziario Pluruennale – QFP).
Come recita il comunicato finale del Consiglio europeo, «il bilancio dell’Ue rappresenta soltanto un 50esimo dei bilanci dell’insieme degli Stati membri ma costituisce un bilancio d’investimenti e i negoziati sul QFP sono pertanto un’opportunità unica per trasformare il bilancio dell’UE in uno strumento per la crescita».
Sagge parole, peccato che tra il dire e il fare… Già, perché proprio molti degli Stati membri che in Consiglio hanno firmato dichiarazioni altisonanti a favore della crescita, poi si oppongono strenuamente ad ogni aumento residuale del QFP, che potrebbe essere utilmente vocato a misure di stimolo.
Il 13 luglio scorso, ad esempio, la Commissione europea ha presentato una proposta aggiornata del Regolamento sul QFP 2014-2020, che prevede un aumento del tetto in stanziamenti d’impegno e in pagamenti dello 0,3%: 1033 miliardi, anziché 1025 (ovvero 1,08% invece che 1,05%) e 987 miliardi, anziché di 972 (equivalente all’1,03% invece che l’1%). La risposta degli Stati membri non si è fatta attendere: secondo fonti accreditate del Consiglio, Regno Unito e Paesi Bassi hanno chiesto una riduzione in stanziamento d’impegno di 150 miliardi di euro, mentre la Danimarca di 135 miliardi; Finlandia, Svezia, Repubblica Ceca e Austria hanno chiesto tagli per almeno 100 miliardi.
Certo, il dibattito è appena cominciato e il negoziato andrà avanti fino alla fine dell’anno; e si può anche non essere d’accordo sul fatto che il bilancio Ue possa essere lo strumento per rilanciare la crescita. Tuttavia, tutti questi elementi messi insieme raccontano una verità amara: la crescita è il nuovo mantra pubblicitario dell’Europa in crisi. Il rischio è che la biblioteca dei documenti programmatici rimasti lettera morta, da domani, abbia un tomo in più. Per gli appassionati del genere.