Il downgrade più importante di Moody’s forse non è quello sul rating sovrano, tagliato di due note a Baa2. L’agenzia di rating ha infatti declassato il «Country ceiling», abbassandolo a A2 dal precedente Aaa. Tale rating infatti valuta il rischio di un investimento in uno Stato sotto il profilo della libera circolazione dei capitali. In altre parole, calcola la possibilità che un Stato possa attuare delle misure per bloccare i capitali all’interno dei propri confini territoriali. Come successo per la Grecia, anche l’Italia è stata declassata. «Il declassamento riflette il maggiore rischio di un dislocazione finanziaria ed economica», avverte Moody’s. E potranno arrivare altri tagli.
Non c’è solo il rischio di un deterioramento della situazione politica. Non c’è solo il rischio di un peggioramento della recessione economica. No. Fra i rischi che Moody’s mette in evidenza, anche se per ora lo ritiene improbabile, c’è quello di un’uscita dell’Italia dalla zona euro o di una ridenominazione del debito esistente. In altra parole, o secessione o ristrutturazione del debito. Scritto nero su bianco al fondo della nota relativa al downgrade, Moody’s spiega quindi che è aumentato il rischio che l’Italia metta delle restrizioni sulla libera circolazione dei capitali. Il rischio politico di cui parla Moody’s è strettamente legato al taglio del rating del Country ceiling. Dalle elezioni nel 2013 potrebbero emergere spinte volte all’uscita dall’area euro, come hanno anche dimostrato le recenti dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Non solo. Aumentano anche i timori che possa arrivare al potere un esecutivo con l’intenzione di introdurre una sorta di protezionismo economico-finanziario. «È forse la prima volta che succede per un Paese dell’eurozona, ha lasciato interdetti anche noi», spiega a Linkiesta un’analista di UniCredit. La conseguenza, come per ogni downgrade, sarà quella del riallineamento dei portafogli dei gestori di diversi fondi d’investimento, che non potranno più tenere titoli di Stato con un rating basso come quello italiano. Inoltre, è lecito attendersi nuovi declassamenti. L’outlook è stato mantenuto negativo, pertanto è possibile che nell’arco dei prossimi 12 mesi arrivi un ulteriore taglio, che porterebbe il rating italiano sempre più vicino allo status di “junk bond”, obbligazione spazzatura.
Gli studi delle banche d’investimento si dividono in due. Da un lato chi pensa che l’Italia sia troppo grande per fallire. Dall’altro chi ritiene che per porre fine al circolo vizioso del debito in cui è entrata Roma, qualcosa deve essere fatto. Nel primo gruppo rientra Goldman Sachs, che non solo pensa che «l’Italia non sarà il primo Paese a chiedere l’utilizzo del meccanismo anti-spread», ma vede poco probabile una ristrutturazione del debito. Con la banca guidata da Lloyd Blankfein troviamo anche Morgan Stanley e Nordea. Di contro, ci sono quelle che ipotizzano uno scenario simile a quello di Atene. Fra queste Bank of America – Merrill Lynch. I due strategist David Woo e Athanasios Vamvakidis, come riportato dal Wall Street Journal, hanno utilizzato la teoria dei giochi per valutare le probabilità che un Paese lasci la zona euro nei prossimi anni. Dall’analisi, pubblicata lo scorso 10 luglio, è emerso a sorpresa che Italia e Irlanda sono dati come i più papabili alla secessione. O almeno, più della Grecia. Merito della forza economica che hanno Roma e Dublino, ma non solo. «L’Italia ha più ragioni della Grecia per lasciare la moneta unica. Atene non avrebbe la forza di resistere all’urto», spiegano Woo e Vamvakidis. È per questo, sottolineano i due strategist, che la Germania «potrebbe “corrompere” l’Italia a rimanere». A Berlino non converrebbe Roma fuori. Tuttavia, come ricorda lo stesso studio, il potere negoziale di Berlino in questo campo è troppo basso per tramutare in realtà questa soluzione. Più probabile, invece, è la richiesta di accesso al fondo European stability mechanism (Esm) per trovare un sollievo. Dello stesso avviso è Citigroup, che da mesi avverte gli investitori del rischio di un bailout dell’Italia.
L’altra via, come circola da tempo, è invece quella della ristrutturazione del debito esistente, in stile uruguaiano. Come ha spiegato anche Moody’s, il problema principale dell’Italia nei prossimi mesi, oltre alle tensioni politiche, sarà il rifinanziamento del debito. Fra 2012 e 2013 ci sono il Tesoro dovrà effettuare un rollover di circa 415 miliardi di euro. Tanto, specie considerando che la condizione del mercato obbligazionario europeo non gode di buona salute. Più si va avanti, spiega una nota di UBS, più l’Italia corre il rischio di dover fare come la Grecia. Del resto, il Fondo monetario internazionale (Fmi) nell’ultimo rapporto ha spiegato che il rapporto debito/Pil italiano passerà dal 120,1% fatto segnare lo scorso anno al 126,4% nel 2013.
Intanto, l’Italia è tornata sui mercati per collocare diverse tranche di titoli di Stato. L’ammontare massimo in emissione, 5,25 miliardi di euro, è stato integralmente coperto, ma i rendimenti hanno avuto un andamento misto. In calo sulle scadenze più vicine, come i Btp 2015, in aumento su quelle più elevate, come i Btp 2019. E il rendimento dei bond decennali italiani sul mercato obbligazionario secondario, dopo una breve parentesi sotto quota 6,00%, ha ripreso a salire. L’effetto Moody’s, per quanto fosse atteso dagli operatori, si è fatto sentire comunque.