“Nata povera, ora a 27 anni vendo le mie borse in mezzo mondo”

“Nata povera, ora a 27 anni vendo le mie borse in mezzo mondo”

«Era ottobre del 2008, mi trovavo a Bologna alla fiera Lineapelle quando entrò in ascensore Vimal, un imprenditore indiano, leader nella produzione per gli intrecci in pelle. Ci guardammo, ci parlammo: decisi di seguirlo. A dicembre andai a Dubai, poi Chennai, Hong Kong, San Paolo, poi di nuovo India, India, India». Benedetta Bruzziches ha 27 anni ed è arrivata alla sua settima collezione di borse. Le sogna, le disegna, ne sceglie i materiali, le produce e infine le vende ai negozi più glamour del mondo: da New York a Parigi, passando per la Corea e il Giappone. E poi: Dieci Corso Como, a Milano, e Penelope, a Brescia, giusto per citare i più trendy in Italia.

Per il 2012 l’azienda di Benedetta ha una previsione di fatturato di 400mila euro, a fronte di quasi 3mila pezzi prodotti. Il gioco di Benedetta è un romanzo famigliare. Nato sulle dolci montagnole di Caprarola, comune abbarbicato sui Cimini, e sviluppatosi poi su e giù per il mondo. Insieme a lei c’è il fratello Agostino, 25 anni, che segue i clienti e lo sviluppo delle collezioni. Anche gli altri due piccoli di casa Mattia e Paolo, 18 e 21 anni, all’occorrenza danno una mano, senza avere paura di sporcarsele: spedizioni, bassa cucina in laboratorio e conti. A sigillare il tutto, mamma Ada: coltivatrice diretta (nocciole, olio e grano) che tiene i cordoni della borsa, vigila sulle finanze e all’inizio si sostituì anche alle banche, spesso troppo lente nel concedere i fidi.

Benedetta da piccola era la «pazza» del paese, perché in un comune di 5mila anime del Basso Viterbese se ti vesti con i fiori e te ne freghi dei giudizi sei comunque bollata come diversa, quando ti va bene. Adesso che Benedetta ritorna a Caprarola intorno a lei si formano i capannelli. «Quando riparti?». «Dacci le ultime dal mondo della moda». «A proposito, ti piace questa camicia?».

Per raccontare la storia di questa designer si può partire anche dalla fine. Dall’ultima apparizione al “Who is the next?”, concorso internazionale di scouting organizzato da Vogue Italia e Alta Roma nella Capitale i primi di luglio. Pagine e pagine per scoprire questo fenomeno così felliniano. Un’affermazione? «Più che altro il consolidamento di un percorso che ho iniziato con incoscienza e fatica anni fa senza sapere dove mi avrebbe portata». Sfilate, presentazioni, fiere: sono le lancette pubbliche che scandiscono il tempo di una ragazza a due teste, mezza stilista e mezza imprenditrice.

«Questo lavoro – premette – non lo faccio per guadagnare, ma per raccontare. Anzi, dirò di più: per comunicare. Perché la moda è comunicazione». E qui si arriva al pezzo forte della casa: le borse. «Che parlano di emozioni, di amori perduti e ritrovati, ma anche di speranze e positività». L’ultima collezione di BB si chiama “L’arte della gioia”, per il recupero delle piccole cose perdute. Ecco quindi le borse con gli occhi, mani e orecchie, ma anche quelle a forma di cabaret di pasticcini (“La gioia della domenica”). Pezzi destinati a finire nelle boutique più all’avanguardia. Allora bisogna ritornare indietro alla fase alfa della creazione.

Tutto nasce da un’evocazione. Una storia e uno spunto. Che si trasformano in una sensazione. «Poi la sensazione – racconta – diventa un materiale, quindi una forma». Le borse vengono create in collaborazione con diversi artigiani a seconda del modello. Una commistione di mani sporche di grasso e colla in cui i processi produttivi sono spesso stravolti a seconda dell’idea. Così, per fare un esempio, la borsa Carmen è nata grazie all’aiuto di un tappezziere che ci ha messo del suo per combinare la sperimentazione della pelletteria con quella di chi lavora i divani.

Quante persone conta l’indotto della tua azienda? «Tantissime, centinaia. La produzione avviene in Toscana, a Santa Croce sull’Arno, poi piano piano gli ultimi ritocchi dell’assemblaggio da altri artigiani. La sperimentazione e la ricerca si consuma in casa, a Caprarola, tra le mura domestiche. Dove anche le vecchie del paese dicono la loro, aggiungono un particolare fatto a mano finché non si raggiunge la perfezione». Benedetta, ormai sempre più protagonista delle riviste di settore e vincitrice di premi, non dimentica di aver faticato, e tanto, prima di affermarsi. Sulla strada ha trovato i truffatori, i clienti che non pagano, le banche che non si fidano.

E così si ritorna all’ascensore di Bologna. «In quel periodo vivevo a Milano, era stata appena assunta da Romeo Gigli, ma non mi piaceva la città e, ma non ditelo in giro, nemmeno quel mondo di gossip e cocktail esclusivi. Decisi di seguire mister Vimal in India: un salto nel buio. Non sapevo nemmeno chi fosse, ma subito iniziai a lavorare nella sua azienda di intrecci in pelle a Chennai. A 24 anni ero direttore creativa, guadagnavo bene, viaggiavo di più e vestivo con il sari». Nel Paese più mistico del pianeta arriva la folgorazione illuminista. «Capii che tutto era possibile, bastava volerlo». E così la seconda svolta:  lanciare una collezione tutta in proprio. Metà produzione in India, il resto come sempre a Caprarola.

«Avevo tra le mani 15 borse, cercavo uno show room dove appoggiarmi. Nessuno mi diede retta, ma mi consigliarono due fiere: Pitti a Milano e Tranoi a Parigi. E qui, tra questi padiglioni, arrivò il primo ordine: i primi venticinque clienti, il primo fatturato di 30mila euro. «Ma adesso basta parlare di numeri e soldi – dice Benedetta un po’ stizzita mentre guarda sul Black Berry le email dei clienti – mi auguro che la mia storia sia un incentivo per i giovani per tenere da parte la paura, lanciando il cuore oltre l’ostacolo. Non sono ricca, vengo da Caprarola, sono cresciuta nei noccioleti, non ho mangiato pane e moda. Il sogno, o lucida follia, ci deve accompagnare. Serve entusiasmo per non farsi avvilire dalla crisi, io provo a raccontarlo con la moda. La moda salverà il mondo perché è bellezza, purché si esca dagli stereotipi. Se chiedo a una ragazza perché ti sei comprata una borsa fluo lei non mi sa rispondere, al massimo dice che va di moda. È questo l’errore».

Lei vorrebbe che tutte le donne avessero le sue borse. Una però in particolare: Rita Levi Montalcini, il suo esempio perché «simbolo dell’illuminismo femminista del Novecento», manifesto della forza di genere. E siccome da queste parti sembra che nulla sia impossibile, Benedetta lo scorso aprile ha realizzato il suo progetto: ha regalato una borsa-libro alla Professoressa per il compleanno numero 103. Stop, dopo il passato e il presente occorre parlare del futuro dell’azienda. Benedetta vorrebbe dar lavoro ad ancora più persone, più artigiani e più artisti, magari in una cascina immersa nella campagna. Dove le borse possano respirare l’aria buona.