Olimpiadi, l’unico oro italiano nella vela lo vinciamo perché compaesani

Olimpiadi, l’unico oro italiano nella vela lo vinciamo perché compaesani

Helsinki, 28 luglio 1952, sessant’anni fa, XV Olimpiade. La coppia Tino Straulino-Nico Rode conquista l’unico oro nella vela mai ottenuto dall’Italia (con l’eccezione di Alessandra Sensini nel windsurf). Una vittoria incredibile quella, per due motivi con ogni probabilità unici nella storia dello sport: gli equipaggi italiano e jugoslavo – il secondo composto da Mario Fafangel e Carlo Bašić – erano formati da compaesani amici d’infanzia e gli jugoslavi, che non avevano nulla da perdere, hanno dato acqua agli italiani nell’ultima e decisiva regata, permettendo così ai loro amici di vincere l’oro. Chi conosce qualcosa della vela, sa che in regata non si fa mai passare nessuno, fosse pure un figlio o un fratello. E ora giù il cappello e ascoltate questa storia di uomini, di mare, di amicizia, di guerra e di sport. Due dei protagonisti sono scomparsi abbastanza di recente. Tino Straulino, è morto nel 2004, Mario Fafangel nel 2007.

La storia non può che cominciare a Lussino (oggi Lošinj, in Croazia), la “madre di tutti i velisti”, dove i nostri protagonisti nascono sudditi austroungarici (Straulino e Fafangel erano coetanei, classe 1914, gli altri due un po’ più vecchi). Fafangel, in un’intervista raccolta una decina d’anni fa, confermava: «Lussino ha la baia più bella per andare a vela. È un posto molto difficile perché ci sono tanti monti attorno e bisogna essere di là per conoscere i venti».

Sia come sia, i ragazzini lussignani crescono in barca, per andare a vela usano la passera lussignana, un’imbarcazione tipica dell’isola. Lussinpiccolo è patria di armatori grandi e piccoli (i Cosulich vengono da là, tanto per citare un nome che ancora conta qualcosa nella navigazione) e di cantieri. Cantieri che, per farsi pubblicità, producono ognuno una passera e ogni anno organizzano una regata, seguita neanche fosse una finale di calcio. Chi vince quella regata si copre di gloria, diventa per un anno l’idolo della città (un po’ come a Siena con il Palio o a Venezia con la Regata storica).

«Lussino è fatta apposta per fare le gare», diceva Straulino, anche lui intervistato una decina di anni fa per il libro Il leone di Lissa (Saggiatore), «è difficile, però è divertente e si imparano a conoscere il vento, il mare, le raffiche sia forti, sia deboli dove provengano. Il golfo è delizioso, è un’ottima scuola, è una delle zone più adatte per imparare, non manca nemmeno la bora».

Tino – sarebbe Agostino, ma nessuno lo chiama col nome intero – finisce le superiori e il padre gli fa un regalo di maturità d’eccezione: una barca e il permesso di andarsene per un anno a zonzo sul mare di Dalmazia. Straulino diventa così un marinaio come nessun altro, stabilisce un rapporto col mare quasi fisico, come sottolinea chi se le ricorda in regata. E, da comandante del “Vespucci”, il veliero della Marina militare, osa l’inosabile: esce alla vela dal Canale navigabile di Taranto (non senza segnalare un’avaria alle macchine, perché la manovra è proibitissima).

Nel frattempo Lussino, finita la Prima guerra mondiale, è stata annessa all’Italia. Fafangel, di famiglia povera, va a lavorare in cantiere fin dall’età di dodici anni, più tardi sposerà la sorella di Bašić. Straulino e Rode provengono da famiglie borghesi, si arruolano in Marina. Straulino frequenta l’Accademia per diventare ufficiale. Una volta a Livorno, al momento di formare gli equipaggi per una regata, un istruttore chiede: «Chi è di Lussino?». Sa che la provenienza è garanzia di saper andare a vela. Straulino fa un passo avanti. Sale in barca e non ne scenderà più. Farà la guerra negli incursori di Marina, parteciperà a due attacchi a Gibilterra e al danneggiamento di cinque unità britanniche. Poi, con la fine della Seconda guerra mondiale, Lussino passa alla Jugoslavia. Fafangel e Bašić hanno in tasca il passaporto jugoslavo, Straulino e Rode quello italiano.

Ed eccoci a Helsinki 1952. La “Merope”, barca italiana, è tra le favorite, invece la “Primorka”, barca jugoslava, gareggia per l’onore della bandiera. L’Italia sta risollevandosi dalla guerra, la Jugoslavia è da poco uscita dal Cominform (1948), è stata abbandonata da Stalin e ancora non gode dei finanziamenti americani. Ricordava Fafangel: «Eravamo poverissimi, avevamo una barca molto mal messa e anziché partecipare alla sfilata di apertura delle Olimpiadi le siamo rimasti attorno per cercare di metterla a posto».

La regata decisiva è l’ultima, cioè la settima: gli americani – superfavoriti, inventori della classe “Star”, campioni olimpici uscenti – sono in testa alla classifica. Gli italiani per vincere hanno bisogno di due cose: arrivare primi e che gli americani si piazzino oltre il terzo posto. Andrà così, anche perché i lussignani con bandiera jugoslava daranno acqua ai lussignani con bandiera italiana. «Io faccio una partenza fantastica», ricordava Fafangel, «Tino era sottovento e non poteva passare. Intanto stava arrivando l’americano. Allora mi ha gridato: “Mario, vira, vira”. Io ho virato e l’ho lasciato passare. Gli ho fatto un favore, ma non avevo nessun interesse a non farlo passare. E poi siamo tutti quanti lussignani». 

Straulino dava della vicenda una versione più compassata (d’altra parte era ammiraglio della Marina militare, uno dei migliori che mai ci siano stati), ma sostanzialmente confermava: «Sì, ci siamo dati una mano fra lussignani, fermo restando che c’era una differenza enorme tra Fafangel e noi. Noi quel giorno avevamo messo una vela particolare che rendeva moltissimo e andavamo come lepri. Però arrivati a quel punto, ci siamo guardati negli occhi, lui ha virato di bordo e ci ha fatti passare». Gli americani terminano la regata ottavi. L’oro va all’Italia, l’argento agli Usa, il bronzo al Portogallo. 

Paolo Monelli assiste alla regata da bordo della nave-appoggio “Proteo” della Marina italiana, e scrive sulla Stampa del 29 luglio: «Quando la “Merope” fu riconosciuta, vedemmo che era avanti a tutti gli scafi della sua categoria, e di molto; girò perfettamente la boa, la vela passò, filò via, raccolta e inclinata col vento di fianco verso la nuova direzione; e ci vollero alcuni minuti prima che giungesse alla boa il secondo concorrente». Così Ciro Verrati sul Corriere della sera: «Dopo sette giorni di gare alterne il grande duello italoamericano si è concluso con la vittoria azzurra e la “Merope” ha battuto la “Comanche”. Straulino poi ha delle virtù quasi miracolose di “attrezzatore”. È l’uomo che prende una vecchia barca il disarmo, la porta al largo, monta la vela e ne tira fuori un gioiello di equilibrio e di armonia» (una cosa del genere era realmente accaduta in una regata a Napoli). Lo stesso giorno, sulla Gazzetta dello Sport, Gianni Brera si lascia andare da par suo: «Dal loro buon sangue di dalmati il capitano di vascello Straulino e il tenente di vascello Rode hanno tratto l’estro per questa impresa che ha veramente del miracoloso». Il ritratto più bello di Straulino, lo abbozzava però il suo amico Fafangel: «Tino è uno dei più grandi e più bravi velisti che ha fatto la madre lussignana. Abbiamo corso insieme, abbiamo vinto, abbiamo perso; la baia di Lussino era sempre piena di vele. Straulino per me è uno dei migliori».

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